Lavandare: un viaggio da Pascoli ai giorni nostri

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Lavandare di Pascoli, una riflessione al tempo del coronavirus

Lavandare di Giovanni Pascoli

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero

resta un aratro senza buoi, che pare

dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene

lo sciabordare delle lavandare

con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,

e tu non torni ancora al tuo paese!

quando partisti, come son rimasta!

come l’aratro in mezzo alla maggese.

Come fa una manciata di parole ad occupare uno spazio così grande?

Possono dei versi scendere così agevolmente fino alla base del pozzo della solitudine?

Pascoli compone questo madrigale, contenuto nella terza edizione di Myricae, nelle vesti di un tecnico del suono, che gestisce l’armonia dei suoi versi nell’acustica dell’aperta campagna.

La poesia è intrisa del simbolismo tipico delle opere dell’autore, e tra le tematiche che spiccano c’è la caratterizzazione del mondo interiore nel paesaggio esterno, in particolare nel mondo contadino della natura e delle cose semplici.

Le diverse stanze di Lavandare

Nella prima strofa viene descritto il luogo, la scenografia: in un campo arato solo per metà, c’è un aratro abbandonato fra la nebbia, senza buoi che lo completino.

Nella seconda stanza arrivano gli effetti sonori. Apparentemente lo scenario si sposta nello spazio, ma tutto viene descritto dalla prospettiva dello stesso campo: dal canale del fiume si sentono le lavandaie intente a lavare i panni, in maniera scandita, quasi ritmata, e la loro voce che intona lunghe cantilene.

Qui hanno un valore molto forte l’onomatopea di “sciabordare” per descrivere il suono dell’acqua che finisce sui panni, e la sinestesia di “tonfi spessi”.

Nell’ultima strofa l’attore si prende la scena. Subentrano i sentimenti dell’animo umano nella canzone della donna, ed attraverso un’analogia la prima strofa prende vita, creando un collegamento circolare.

Come l’aratro in mezzo alla maggese

“il vento soffia e cadono le foglie dai rami, e tu non fai ancora ritorno! Da quando sei partito sono rimasta come un aratro abbandonato in campo spoglio.”

E’ un’immagine triste fortemente evocativa.

Questa poetica essenzialmente descrittiva ha il chiaro intento di suscitare nel lettore un senso di abbandono e desolazione.

L’aratro è il simbolo della solitudine, il paesaggio spento, quello di un vuoto interiore che non si può colmare, di un rapporto finito o interrotto prematuramente.

Immediata è l’interpretazione in chiave amorosa, di una donna abbandonata o che ha visto partire il proprio amore verso una guerra, aspettandolo ogni giorno nella speranza di poterlo rivedere.

Nulla però esclude un’interpretazione più variegata, che può riguardare tutte le figure presenti nella sfera degli affetti, priva di qualsiasi vincolo di immedesimazione.

Il tempo del coronavirus

Quanto può rispecchiarsi in questa immagine la solitudine di chi, nei giorni segnati da una pandemia globale, rispettoso della quarantena, non può colmare la distanza da una figlia, da un genitore, da un fratello, da una compagna o da un marito, tra apprensioni e preoccupazioni?

O la solitudine di tutti i medici e gli operatori sanitari che hanno dovuto allontanare la propria famiglia, i propri figli, per salvaguardarne la salute, e combattono quotidianamente battaglie piene di pericoli al fianco dei pazienti?

Ne prende gli stessi tratti la solitudine di chi ha perso una persona cara, o non può assistere alla sua battaglia.

Ma come la “lavandara” inerme soffre questa mancanza, contestualizzando la vita ed il pensiero dell’autore nell’esaurirsi del positivismo, così l’uomo non può trovare risposte alle domande che si pone ed un senso a tutto quello che vede accadere, non provando altro che smarrimento interiore.

Allo stesso modo noi ci sentiamo impotenti di fronte ad alcune malattie, alle quali non possiamo dare una spiegazione.

Lavandare dalla voce al anonima al poeta

La donna risponde con mestizia e con la rassegnazione in una faccenda domestica, ma è molto importante il suo canto, una tradizione popolare che diventa musica ed entra nella sfera di competenza della poesia.

Per Pascoli infatti, solo la poesia “Lavandare” può avere funzione consolatoria e solo il “nido” familiare, legato anche alle cose più comuni e semplici, può essere un rifugio sicuro.

Non è un caso infatti che l’autore abbia fatto suoi dei versi letti nei canti popolari marchigiani pubblicati da Antonio Gianandrea nel 1875, contaminandoli ed adattandoli, costruendo così l’ultima strofa sulla luce che emanava un verso in particolare.

Un passaggio dalla voce anonima alla voce del poeta.

Ed è proprio questo ultimo verso il diamante che Pascoli ha trovato nella miniera marchigiana delle tradizioni popolari ed ha voluto valorizzare ponendolo al centro di un meraviglioso diadema.

Giuseppe Russo per Questione Civile

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