La filologia, una materia da rivalorizzare
Capita a tutti i lettori di imbattersi in edizioni critiche di capolavori letterari classici o contemporanei e di assaporarne le pagine, apprezzandone l’impaginazione, i caratteri ed eventuali note e commenti. L’attività della filologia, sottesa all’edizione critica del testo, mostra una grande importanza nella ricostruzione testuale nel modo più scientifico possibile. La domanda da porsi è però la seguente; noi lettori siamo in grado di cogliere il lavoro svolto per ricostruire i testi cardine della nostra letteratura? E soprattutto, ci chiediamo quanto influiscano la distanza cronologica o le condizioni in cui il testo ci è stato tramandato nella pratica di ricostruzione del testo?
È bene sapere che dietro la restituzione di un testo critico vi è un lavoro di interpretazione svolto da figure professionali specializzate. Gli editori critici sono studiosi di discipline quali la filologia, l’epigrafia e la diplomatica. Essi hanno come obiettivo quello di riprodurre il testo nella sua versione scientificamente più corretta, ossia più vicina alla volontà autoriale. La disciplina richiede un rigore metodologico e fa costantemente i conti con l’aspetto materiale dei suoi testimoni, che possono essere manoscritti o testi a stampa. Tuttavia, il lavoro di un filologo non si esaurisce certamente in un semplice processo di collazione dei testi e in una scelta tra le varianti, bensì
mostrando una notevole complessità alle sue spalle.
Il metodo di Lachmann nella filologia
Il momento di svolta nell’elaborazione di un metodo scientificamente provato per la ricostruzione testuale risiede nel lavoro del filologo tedesco Karl Lachmann. Egli, mediante la sua definizione di errori guida, ci guida nella classificazione dei testimoni. Secondo il parere del filologo sono gli errori guida, di natura separativa o congiuntiva, gli unici a poterci guidare nell’individuazione dell’appartenenza o meno di un testimone ad una data famiglia. Questi errori, per poter aver valore scientifico, devono essere monogenetici, ossia originati a partire dallo stesso testimone. Solo così possono svolgere un ruolo nella ricostruzione dello stemma, ossia l’albero genealogico dei testimoni della tradizione, in virtù del loro valore separativo o congiuntivo.
Il metodo di Lachmann ha origine a partire dagli studi compiuti dal filologo tedesco sul De rerum natura di Lucrezio, il cui frutto è l’edizione critica del 1850. Avendo Lachmann lavorato principalmente sui testi classici, di cui non disponiamo degli originali nella quasi totalità dei casi, si comprende la necessità di risalire all’archetipo. Quest’ultimo è il testo da cui ha avuto origine la prima divisione della tradizione testuale. In un quadro ricostruttivo in assenza di autografo, ossia un testimone di mano dell’autore o di una stampa realizzata sotto il suo controllo, l’editore fa i conti con una tradizione sempre meno lineare e con possibilità di contaminazione tra i testimoni. Per questo motivo, il critico deve avvicinarsi all’archetipo, il testo idealmente più vicino all’originale.
Edizioni di manoscritti o di testi a stampa?
L’edizione critica del testo presenta delle peculiarità a seconda del mezzo con cui il testo è stato tramandato: per i testi manoscritti, la riproduzione di una copia riguarda un processo creativo e molto personalizzato in base alla mano del copista che esempla la copia. Al contrario, l’invenzione della stampa, che risale al 1455 ad opera di Johannes Gutenberg, permette una diffusione sempre crescente del libro tascabile. La standardizzazione del processo produttivo e la celerità di produzione, sebbene allontanino l’autore dal controllo della propria opera, portano ad una diffusione capillare del libro stampato. Dal XIX secolo la meccanizzazione permette alla stampa di passare da un processo manuale ad una produzione del tutto automatizzata. La nascita dell’industria culturale moderna e delle case editrici si può rintracciare in questi mutamenti epocali.
La lezione di Friedrich Nietzsche
È inevitabile approcciarsi alla filologia con grande umiltà, come ci ricorda Friedrich Nietzsche, uno dei filologi più celebri del secolo scorso. Conosciuto dal largo pubblico per la sua produzione filosofica, Nietzsche vanta una formazione umanistica di tutto rispetto. Profondo conoscitore delle lingue classiche e in particolar modo della lingua greca, ottiene a soli venticinque anni la cattedra di lingua e letteratura greca all’università di Basilea, tenendo la sua prolusione su Omero e la filologia classica. La sua inesauribile attività filologica, assieme alla sua produzione filosofica, rendono Nietzsche un intellettuale a tutto tondo. Le sue parole relative al lavoro di critica del testo suonano ancora oggi come un monito per le future generazioni di studiosi:
Filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol “sbrigare” immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo (F. Nietzsche, Aurora).
Per questo motivo il lavoro del filologo, dal greco “amante della parola”, è un lavoro che insegna a leggere lentamente ed in profondità, procedendo per tentativi che non sempre giungono ad una soluzione definitiva. Il testo che noi troviamo in edizione critica è il frutto di un lungo lavoro di ricostruzione. È come se il filologo riavvolgesse il nastro, con l’ambizione di tornare indietro nel tempo e assistere al momento della creazione del prodotto letterario. Il filologo sceglie di studiare a fondo il testo per porsi di fronte alla scrivania dei grandi della letteratura e di comprenderne le
scelte e le lezioni rifiutate.
La filologia: Prima o ultima volontà d’autore?
Nel caso in cui disponiamo del testo d’autore nelle varie fasi redazionali, la scelta dell’editore può essere duplice: ci si dovrà affidare alla prima volontà per poi restituire in apparato le lezioni delle edizioni successive, o affidarci all’ultima volontà dell’autore? Per motivi culturali la tendenza è quella di leggere l’ultima volontà, come se avesse un valore testamentario per l’autore in questione. Talvolta, invece, per motivazioni di prestigio storico o di originalità, l’editore si affida preferibilmente alla prima volontà autoriale.
Pensando ad un caso concreto, siamo soliti leggere il poema di Tasso come attestato dalla prima volontà: sin dai banchi di scuola studiamo La Gerusalemme liberata, sebbene l’ultima volontà testimoniata sia La Gerusalemme conquistata. La scelta critica è però giustificata dalle condizioni storiche e ideologiche in cui versava Tasso nel momento della seconda stesura. La redazione finale è il frutto di un adeguamento del poeta ai canoni della Controriforma, perciò i criteri filologici hanno scelto consapevolmente di restaurare la lezione originaria, più vicina alle reali intenzioni di Tasso.
Opere pubblicate “contro” la volontà d’autore
Altro caso è, invece, la mancata licenza di pubblicazione da parte dell’autore. Ci sono alcune opere, che pur essendo diventate dei capisaldi della letteratura occidentale, erano state destinate al rogo da parte degli autori. Virgilio aveva chiesto in letto di morte nel 19 a. C. di annientare il suo poema, l’Eneide, che noi leggiamo dunque per volere di Augusto. Altro caso celebre è quello di Kafka che desiderava vedere bruciate le sue opere prima della sua morte. Dunque, se dovessimo rispettare totalmente il concetto di volontà dell’autore, allora non saremmo autorizzati a leggere un capolavoro quale l’Eneide? Se ne deduce certamente che in un clima di incertezze, come quello contemporaneo, è necessaria una mediazione tra le intenzioni autoriali ed una consapevolezza filologica dell’editore critico, rileggendo con grande attenzione le parole di Nietzsche sul significato di una lettura attenta e non frettolosa.
Giulia Marianello per Questione Civile