Analisi dei concetti di Giustizia e Diritto in Aristotele
Per quanto concerne l’avanzamento teorico del presente Archivio, che, lo rammento, si pone come fine ultimo quello di offrire al lettore una disamina il più possibile concreta, coerente ed aderente cronologicamente ai processi evolutivi della dottrina filosofico giuridica dell’epoca classica, meritano altrettanta attenzione le formulazioni di Aristotele sul diritto, sulla giustizia e sull’evoluzione del concetto di “diritto di natura”, ben più complesse e corpose di quelle platoniche.
In proposito della dottrina aristotelica, è doveroso, dunque, fornire un’accurata analisi, in ragione dell’importante influenza che la stessa ha avuto non solo sulle teorie future ma in particolar modo sullo stoicismo medio di matrice greco-romana.
Nonostante numerose opere che hanno affrontato la tematica del diritto e della politica non ci siano pervenute, possiamo analizzare alcuni componimenti fondamentali della sua teoresi: l’Etica Nicomachea, la Politica e la Retorica. Sebbene appaiano farraginose, per via delle innumerevoli ed imperfette trasmissioni ricorse nel tempo per mano di altri, in esse si può riscontrare la dottrina più completa e coerente nel merito del significato teoretico di “diritto di natura”.
Il rifiuto dell’approccio platonico
Appare noto ormai agli studiosi che Aristotele abbia progressivamente e definitivamente preso le distanze dalla dottrina del suo maestro, Platone, e che alla fine ne abbia ripudiato il suo idealismo, tant’è che il metodo utilizzato dal primo per lo studio della politica e del diritto è ben diverso.
Con estrema evidenza si può affermare che mentre Platone ha elaborato una nozione molto ampia del diritto, tale per certi versi da non definire chiaramente il confine con la morale, Aristotele ha il merito di aver sviluppato nel libro V dell’Etica Nicomachea una nozione ben più precisa del diritto, destinata ad avere una importanza storica significativa nei secoli a venire.
Il carattere che più lo distingue dal maestro, come accennato in precedenza, sta nella sua metodologia speculativa, poiché non giunge ad una concezione di diritto partendo dall’osservazione in chiave idealistica del mondo circostante, ma parte dall’esperienza e dall’osservazione del linguaggio, da considerarsi riflesso dell’esperienza intesa dal filosofo.
L’importanza del linguaggio e della semantica: il significato della “giustizia”
A tal proposito Aristotele si sofferma in maniera preponderante sul termine “dikaion”, che se dovessimo interpretarlo secondo il pensiero platonico, verrebbe ugualmente a considerare sia il “giusto” che il “diritto”.
A differenza di quanto si possa pensare, Aristotele non rigetta l’ampia nozione della giustizia formulata dal suo maestro: infatti, quest’ultima viene considerata una virtù universale in quanto include tutte le altre virtù secondarie, come il coraggio, la temperanza, la liberalità, la magnanimità, la mansuetudine e la magnificenza, in accordo con la riflessione morale sulle virtù etiche in complementare opposizione teoretica alle virtù dianoetiche.
Aristotele sosteneva a tal proposito che «la giustizia è la virtù più efficace, e né la stella della sera, né quella del mattino sono così meravigliose, e citando il proverbio diciamo: nella giustizia ogni virtù si raccoglie in una sola. Ed è una virtù perfetta al più alto grado perché chi la possiede è in grado di usare la virtù anche verso gli altri e non soltanto verso sé stesso”.
L’autore fornisce anche un’accezione più ristretta del termine, che corrisponde poi al suo significato più proprio, cioè la giustizia particolare: l’oggetto proprio di questa virtù è dare a ciascuno il suo – suum cuique tribuere – principio già affermato da Platone. Dunque, questo tipo di giustizia procede ad una adeguata suddivisione dei beni, di modo che nessun uomo riceva più o meno di ciò che gli spetta secondo il metodo della “giusta misura”.
L’armonia sociale
Così come per la giustizia universale, Aristotele applica anche a quella particolare la teoria della virtù come ricerca del giusto mezzo, che sta nelle cose stesse, distribuite a ciascuno in parte né troppo grande né troppo piccola, ma in quantità intermedia tra gli opposti, tale per cui la giustizia particolare viene anche definita dagli studiosi del pensiero aristotelico come “giustizia distributiva”.
In questo modo la giustizia assume una veste diversa dalla morale, poiché finisce per esser considerata come un metro di distribuzione dei beni tra gli uomini.
La riflessione aristotelica va oltre, poiché rintraccia nella giustizia un ruolo rilevante e indispensabile ai fini del perseguimento e preservazione dell’armonia sociale, che i filosofi sono soliti chiamare “ison”, ovvero “eguaglianza”.
La giustizia distributiva e la giustizia correttiva
Per comprendere cosa si intende con questo termine e per approfondire in che modo la giustizia abbia un ruolo, è necessario, secondo l’analisi speculativa presa in esame, procedere dapprima alla distinzione di due operazioni che rientrano nel ragionamento logico e deduttivo adottato dal filosofo stagirita.
In primo luogo, se il compito principale della giustizia è quello di presiedere alla distribuzione dei beni, degli onori e delle cariche pubbliche tra i membri della collettività, allora, in questo caso, l’eguaglianza va considerata come una proporzione, assumendo una forma geometrica: per citare un esempio concreto, il valore del bene deve essere proporzionale al valore della manodopera utilizzata per la sua realizzazione.
In secondo luogo, se la giustizia controlla la correttezza degli scambi, allora nel caso secondo cui si presenti uno squilibrio nello scambio, poiché magari viene sottratta ad un patrimonio una frazione che gli era stata attribuita, per passare invece ad incrementare, sempre in frazione, il patrimonio di un altro soggetto senza giustificato motivo, proprio in questa fase subentra la correzione dello squilibrio da parte della giustizia stessa, che si spoglia della veste distributiva per assumere la forma di giustizia correttiva, ossia “dikaion diorthoticón”.
Risulta necessario, dunque, ristabilire un’eguaglianza non geometrica, bensì aritmetica, poiché si tratta di un calcolo matematico effettuato da un giudice sul valore del danno subito dal soggetto leso e che il reo deve risarcirgli.
La formulazione aristotelica come matrice della giurisprudenza moderna
Senza dubbio, questo duplice ambito di applicazione della giustizia e il rispettivo duplice approccio metodologico è stato molto apprezzato dagli studiosi posteriori e si può affermare con estrema razionalità che ha costituito una fonte indispensabile per i giuristi che hanno elaborato successivamente la distinzione dottrinale tra diritto pubblico e diritto privato: infatti, si è soliti considerare che lo Stato, e dunque il diritto pubblico, applichi una giustizia distributiva, mentre l’applicazione della giustizia correttiva, che si rifà ad un’eguaglianza aritmetica, sia propria del diritto privato.
Dunque, i giuristi romani successivi ad Aristotele hanno applicato e sviluppato quasi scientificamente questo metodo correttivo nei rapporti tra i privati cittadini, riassunto nel diritto romano con la teoria dell’arricchimento senza causa, mutuo, giusto prezzo, sfociando nel principio del “damnum iniuria datum, condictiones sine causa”.
L’interpretazione aristotelica di “giustizia”
Come già ho accennato, Aristotele non ignora affatto che esista un significato ampio di giustizia e che ad essa possa collegarsi un’accezione prettamente morale in riferimento al concetto del “giusto” oggettivo.
C’è da specificare, però, che mentre per il suo maestro, Platone, non sussiste alcuna differenza tra diritto e morale, finendo per dare al concetto di giustizia una sfumatura per di più individualistica ed interiore, propria invece della morale, per Aristotele, al contrario, si tratta di un accostamento di derivazione logica meramente “metaforica”, poiché preferisce evidenziare un’altra accezione del giusto in quanto tale.
Quest’ultima si evince facilmente dalle sue opere, infatti la sfumatura aristotelica più originale, rispetto alle precedenti formulazioni sul concetto di giustizia, risiede proprio nell’“equilibrio tra i diversi cittadini che partecipano alla collettività”, costituita da uomini liberi che hanno interessi diversi e che si disputano onori e beni, tra i quali entra in gioco il “giusto” inteso dallo stagirita, ovvero il “giusto politico” (dikaion politikón), che costituisce la principale forma della giustizia aristotelica, alla quale tutte le altre sono surrogate.
I confini di Giustizia e Diritto
A questo punto di analisi, è doverosa una breve riflessione, utile per comprendere i confini della “giustizia” e del “diritto” indicati da Aristotele: come sostiene anche M. Villey, «Non esiste dikaion, diritto, nel senso proprio del termine, che nei rapporti tra i cittadini», a confutazione delle riflessioni di Gurvich, il quale «ritiene di individuare una dimensione giuridica nei gruppi infra-etici».
Aristotele, infatti, dimostra una piena consapevolezza della distinzione tra “comunità” e “società”, ben prima di quanto abbiano fatto i sociologi tedeschi del XX secolo, poiché, per l’autore dell’Etica Nicomachea, non è cosa sbagliata discorrere nel merito di una giustizia interna ai gruppi più ristretti ed in particolare all’interno della famiglia, ma sarebbe improprio considerarla sul piano finalistico e metodologico-applicativo alla pari della giustizia distributiva o aritmetica, proprio perché non esiste un diritto dentro la famiglia o dentro i piccoli gruppi ristretti, in ragione del fatto che costituiscono comunità a sé stanti e non “società”, intesa come collettività di tutti gli individui.
L’Etica Nicomachea di Aristotele: la matrice del diritto, della giustizia e della scienza giuridica
La prima vera e propria concettualizzazione gius-filosofica del “diritto” e della “giustizia” viene fornita proprio da Aristotele nell’ottavo e nono capitolo del libro V dell’Etica Nicomachea, in cui cerca il più possibile di prendere le distanze dal maestro e non cadere nella confusione tra “nomos” e “dikaion” (cioè tra “legge” e “giusto”).
Essendo un grande analista del linguaggio, egli evidenzia la netta separazione concettuale tra l’”esser giusto” (al maschile, o al femminile) e “fare il giusto” (al neutro), ovvero tra “dikaios” e “tò dikaion”: un uomo, quindi, può a ragione compiere il giusto (“dikaion”) senza essere giusto (“dikaios”), tanto quanto egli può compiere atti ingiusti pur non essendo ingiusto nella propria natura soggettiva, cioè per errore o per coercizione intimidatoria o violenta.
Sicuramente, nella teoresi aristotelica è possibile rintracciare il punto di contatto tra diritto e morale, più propriamente nel libro V dell’Etica Nicomachea, in cui l’autore, oltre a sostenere l’autonomia del lavoro di analisi della scienza del diritto, ovvero del “dikaion”, che ha per oggetto l’esperienza e gli effetti del diritto tra i cittadini, evidenzia come talvolta il lavoro del giurista e del moralista siano sovrapponibili nel merito dell’indagine sulle intenzioni degli uomini nell’esperienza del vivere comune.
Per di più, sempre nel libro V dell’Etica Nicomachea, specifica anche che il giurista, come lavoro ulteriore, deve indicare al moralista ciò che l’intenzione deve perseguire, poiché il loro operato più proprio e necessario è quello di indagare sull’oggetto da perseguire e non principalmente su quali siano le intenzioni con cui il soggetto persegue l’oggetto.
Dunque, potremmo dire che la “forma intenzionale” che muove il soggetto agente nelle sue azioni è, secondo il filosofo, materia propria della morale; la “sostanza finalistica” propria del comportamento del soggetto agente, partendo dalla sua natura sociale e collettiva, rientra invece nell’ambito della scienza giuridica e del lavoro quotidiano dei giuristi.
Risulta essere proprio qui che il diritto si inserisce nel campo della morale, ma appare evidente, attraverso un ulteriore ragionamento, la distinzione tra leggi morali e leggi giuridiche.
Tutto ciò ha del vero in linea di principio, poiché è insostenibile, secondo Aristotele, che ogni legge sia, in quanto tale, definita “giuridica”, come invece sosteneva il suo maestro, Platone: per essere definita tale, bisogna valutare, secondo l’occhio vigile della scienza del diritto, l’oggetto stesso delle intenzioni dei soggetti prima che le intenzioni in quanto tali.
In altre parole, è necessario prendere in considerazione il contenuto del “nomos” (“norma”) e analizzarlo sotto la lente della giustizia particolare, intesa in linea generale come la fusione delle tre tipologie di giustizia indicate dal filosofo di stagira: quella distributiva, quella aritmetica e quella politica.
Le formulazioni aristoteliche e le dottrine giuridiche successive
Queste riflessioni teoretiche hanno costituito un punto di riferimento imprescindibile per tutte le dottrine successive della storia della filosofia del diritto e della scienza giuridica, anche se, c’è da dire, talvolta la speculazione aristotelica non è stata messa in risalto quanto avrebbe meritato di essere.
Invero, la confusione e la sovrapposizione concettuale tra diritto e morale, tipica dell’approccio platonico, spiccatamente idealista, ha caratterizzato molte epoche successive, finanche il Medioevo, influenzato a sua volta anche dalle teorizzazioni di Sant’Agostino.
Ce ne sono state altre, però, che hanno visto una migliore considerazione ed interpretazione della dottrina aristotelica, che hanno saputo delimitare un ambito giuridico specifico e separare in maniera chiara ciò che non rientra propriamente nello studio della giurisprudenza ma che appartiene alla riflessione filosofico-morale, ovvero lo studio sulle virtù di vario genere, che appartengono ad un’area diversa del giuridico, poiché analizza le intenzioni dei soggetti nella collettività.
A tal proposito, in relazione all’influenza aristotelica sul pensiero romano classico, è importante evidenziare come il diritto romano sia partito da una concezione stretta di diritto, proprio in riferimento ad un approccio stoico-aristotelico. Per finire, sarebbe comunque utile sottolineare come anche il diritto interno di molte nazioni europee si sia modellato sui pilastri dottrinali della teoresi tomista, elaborata peraltro sulla base dell’analisi gius-filosofica e del potenziamento dottrine dell’Etica Nicomachea con l’elemento teologico-cristiano.
Alessio Costanzo Fedele per Questione Civile
Bibliografia
Parte degli articoli pubblicati nel presente archivio sono estratti del mio lavoro sperimentale dal titolo “Lo Stoicismo giuridico di M. T. Cicerone”, che rientra nell’area scientifico-disciplinare della filosofia del diritto, completata il 20 marzo 2020. Uno dei principali testi che ho adottato per la ricerca, lo studio e la stesura del lavoro è “La formazione del pensiero giuridico moderno” (1986, Editoriale Jaca Book spa, Milano) di M. Villey.