Equità, obbligatorietà ed i limiti all’autorità delle norme giuridiche

Equità della legge

Equità e limiti all’autorità delle leggi

Dopo aver prestato attenzione nel precedente articolo (clicca qui) alle riflessioni aristoteliche sulle leggi cosiddette “positive”, ovvero le leggi scritte, all’arbitrarietà del legislatore e al principio aristotelico della “prudenza” (phronesis), giungiamo ad un’ulteriore analisi nel merito dell’equità e dei limiti all’autorità delle leggi.

Il presupposto teorico per Aristotele è che il diritto abbia validità in quanto si fonda sul diritto naturale.

”Diritto nell’Antichità
– N.6
Questo è il sesto numero della Rubrica di Area dal titolo Diritto nell’Antichità, appartenente all’Area di Filosofia del Diritto

L’obbligatorietà del diritto

Dunque, si può porre qui una distinzione arcaica ma sempre valida ed efficace.

Gli elementi che procedono direttamente dall’osservazione della natura, ovvero gli insegnamenti del diritto naturale (dikaion physikón) hanno valore universale e, dunque, universale è la loro obbligatorietà.

Gli elementi che invece procedono dalla volontà dello Stato, ovvero le determinazioni specifiche del diritto positivo (dikaion nomikón), sono validi ovunque ma nei limiti dei confini della giurisdizione del legislatore, per cui, in questo caso l’obbligatorietà è relativa alle circostanze.

È nell’alveo di queste specificazioni che il diritto positivo ha titolo ad esser definito obbligatorio tanto quanto il diritto naturale.

La filosofia giuridica aristotelica è riuscita, dunque, in maniera eccelsa a fornire un fondamento all’autorità stessa delle leggi, che mai è riuscita in maniera definitiva ai teorici del positivismo giuridico.

Teoria dei limiti all’autorità della legge: l’aderenza al giusto naturale

Nelle ultime analisi che intendo affrontare nel merito della dottrina aristotelica del diritto naturale, riveste una particolare importanza la posizione dell’autore per ciò che concerne la teoria dei limiti all’autorità delle leggi, che risulterebbe costituire propriamente ed a ragione uno degli elementi di critica più profondi evidenziati nei confronti del positivismo giuridico.

Infatti, come ho affermato poc’anzi, le leggi positive hanno un valore, dunque autorità, solamente se le si suppone fondate sul “giusto naturale” e sarebbe corretto presumere che, in base a questo principio, il legislatore non avrebbe interesse alcuno nel rinunciarvi, poiché, sempre in linea di principio, il legislatore è imparziale a qualsiasi interesse particolare.

È possibile, però, in casi eccezionali – si spera! – che il legislatore non persegua l’interesse pubblico e che sia manchevole della conoscenza tecnica necessaria, della buona volontà e di onestà intellettuale tale da provocare in lui uno “snaturamento”, venendo meno ai principi che dovrebbe perseguire nello svolgimento delle proprie funzioni.

In questi casi, lo stagirita consiglia di non perseguire il prodotto legislativo del loro pubblico impegno, in altri termini sollecita non solo i cittadini ma anche i giudici al doveroso rifiuto dell’osservanza delle leggi ingiuste o sbilanciate da interessi privati, nelle quali, dunque, non si può rintracciare il “giusto naturale”.

Teoria dei limiti all’autorità della legge: l’autorità legislativa

Un altro elemento, che potrebbe indurre i cittadini e i giudici rispettivamente allo sterile rispetto ed applicazione delle leggi positive, consisterebbe nell’autorità da cui le norme vengono emanate.

Sempre per principio, dovrebbe essere “naturalmente” competente. Purtroppo, però, appare arduo comprendere quando questa autorità sia effettivamente e naturalmente competente, poiché nell’ideale regime misto aristotelico, sintesi tra democrazia, monarchia ed aristocrazia, non risulta chiaramente rintracciabile la figura che debba esercitare l’autorità sovrana, ovvero chi debba detenere il potere legislativo e giudiziario.

Questi poteri possono essere conferiti sia alla magistratura, sia al consiglio dei nobili, sia all’assemblea popolare, senza dover necessariamente escludere aprioristicamente uno solo di questi organi, in accordo con il regime misto preferito da Aristotele.

Pertanto, nella sua dottrina è impossibile ritrovare gli assunti di base tipiche delle teorie contrattualistiche.

Dunque, non sempre le norme giuridiche emanate dal legislatore hanno un primato rispetto alle altre fonti del diritto, tale per cui appare impraticabile in tutta la speculazione gius-filosofica di Aristotele tentare di costruire una gerarchia ordinata delle fonti del diritto, infatti nella sua teoria l’autorità delle leggi non costituisce un principio cardine.

La teoria aristotelica dell’epiéikeia (equità)

Infine, è doveroso, a questo livello di analisi, dare spazio alla teoria dell’epiéikeia, ovvero alla teoria aristotelica dell’equità, rintracciabile sia nell’Etica Nicomachea  che nella Retorica.

L’equità, qui intesa come la piena realizzazione dell’uguaglianza non solo nella società, ma anche tra i rapporti dei privati cittadini, può essere considerata ragionevolmente come una “supergiustizia”.

Possiamo notare come nel corso dell’evoluzione della riflessione aristotelica la giustizia venga inizialmente considerata come il principio supremo della legge e successivamente, invece, come venga considerata “strumento correttivo” della norma scritta.

Questo perché la legge positiva, declinando con forma rigida una giustizia naturale, di per sé non rigida, finisce per allontanarsi dal modello originario – naturale.

Questo spiega il motivo per cui, secondo Aristotele, il giudice deve essere autorizzato talvolta ad interpretare la norma con più libertà, affinché possa essere adattato equamente alle circostanze delle parti in causa ed emanare una sentenza equa e idonea al giusto naturale.

L’intrinseca non obbligatorietà delle norme inique

A maggior ragione, dunque, ha validità quanto detto poc’anzi nel merito della non obbligatorietà dell’osservanza di norme ingiuste, nel caso il legislatore non abbia agito in conformità degli interessi della città e del bene comune.

«Questo dettato non è una legge, perché non adempie alla funzione propria della legge».

(Aristotele, Retorica, I, 15, 1375b).

Quindi, una legge che contraddice la giustizia, invece di essere uno strumento al servizio del giusto naturale, non merita più il nome di legge ed il giudice ha il dovere di non applicarla e considerarla.

Un principio, questo, incontrastabile, rimasto centrale nella trattazione classica del giusnaturalismo e che l’autore dell’Etica Nicomachea riprende dal suo maestro, Platone.

La teoria dell’equità ai giorni d’oggi

La teoria dell’equità, se fosse applicata esplicitamente alla contemporaneità, susciterebbe scandalo.

Ma è giusto chiarire che essa viene adottata anche oggi, seppur in maniera implicita e, aggiungerei, dalla dubbia finalità, nel pieno positivismo giuridico dei nostri tempi, quando, ad esempio, un giudice riesce a manipolare l’applicazione di una legge, sventolando la bandiera dell’“interpretazione della norma” e, a causa di ciò, non risultano essere poche le norme che cadono inevitabilmente in desuetudine.

Ad Aristotele si dà certo il merito di aver riconosciuto i limiti non solo della scienza del diritto naturale, che porta a risultati spesso vaghi e provvisori, incapaci di soddisfare i bisogni dei giuristi, ma anche del diritto positivo, in quanto non bisogna fare l’errore di attribuire alle norme scritte un valore e un’autorità assoluti.

Alessio Costanzo Fedele per Questione Civile

Bibliografia

Parte degli articoli pubblicati nel presente archivio sono estratti del mio lavoro sperimentale dal titolo “Lo Stoicismo giuridico di M. T. Cicerone”, che rientra nell’area scientifico-disciplinare della filosofia del diritto, completata il 20 marzo 2020.
Uno dei principali testi che ho adottato per la ricerca, lo studio e la stesura del lavoro è “La formazione del pensiero giuridico moderno” (1986, Editoriale Jaca Book spa, Milano) di M. Villey.

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