La morte dell’autore: quando siamo passati dalla centralità dello scrittore a quella del lettore
Cosa pensiamo quando pensiamo ad uno scrittore? Una mente. Due mani – al massimo! – che corrono romanticamente su una macchina da scrivere o, più realisticamente, su una tastiera.
Un genio -preferibilmente bianco, preferibilmente uomo- panciuto o troppo magro, seduto nel suo salotto Rococò o chiuso nella sua stanza impolverata, chino sulla sua scrivania di mogano, pronto a vivisezionare con fare scientifico la sua arte oppure a farsi prendere dall’ispirazione tra libri e scartoffie frutto di altre menti, altre mani, altri uomini che generarono col solo sforzo individuale e onnipotente.
Ma è davvero così?
L’origine del pensiero critico sulla morte dell’autore: Roland Barthes
Di certo non lo pensava Roland Barthes (1915-1980), un critico francese che, evidentemente refrattario ad ogni tipo di stereotipia, decise di rivoluzionare il mondo della critica letteraria.
Nato a Cherbourg, in Francia, nel 1915, iniziò la sua formazione letteraria alla Facoltà di Lettere Classiche della Sorbona. In seguito spaziò dalla sociologia alla psicologia, dalla linguistica alla politica, passando per la filosofia e la semiologia, tanto che i suoi titoli vanno da riflessioni sulla pura lingua, vista come insieme di segni scritti e recepiti al di là del senso (Il grado zero della scrittura), ad analisi del marxismo, fino a scritti d’amore (Frammenti di un discorso amoroso).
Egli è di solito associato alla scuola di pensiero dello strutturalismo che, applicata a diverse discipline (arte, linguistica, antropologia), si basa sul considerare l’opera, qualsiasi essa sia (letteraria, pittorica, filmica), come un tutto scomponibile in parti, in sotto-unità strettamente legate tra loro, che vivono tanto insieme quanto indipendenti l’una dall’altra.
Il pensiero maturo: la corrente post-strutturalista
A questa fase strutturalista ne segue un’altra detta, appunto, post-strutturalista che distrugge e nasce dalle ceneri della precedente. Ci dimostra come per Barthes fosse assolutamente necessario evadere dalle canonizzazioni che volevano incasellarlo necessariamente in una definizione.
A questo proposito, è interessante notare che una delle sue ultime opere, Frammenti di un discorso amoroso, esula totalmente da qualsiasi sua idea precedente, tant’è che in un’intervista a Playboy la definì “un atto di scrittura abbastanza fuori moda, perché l’amore è fuori moda negli ambienti intellettuali”.
Sin dall’inizio della sua formazione classica, però, dovette scontrarsi con un tipo di interpretazione critica non del tutto coerente col mondo letterario che gli pareva di studiare.
L’interpretazione dei testi, così come gliela presentavano i professori e gli intellettuali allora, doveva apparirgli troppo ossequiosamente ancorata alla biografia e alla volontà dell’autore che, nella maggioranza dei casi, era morto da secoli e del suo pensiero non aveva lasciato traccia esplicita.
Forse proprio gli studi classici cominciarono a suggerirgli che qualcosa in questo sistema non funzionava.
L’autore nel mondo antico
Del resto, se ci pensiamo bene, il concetto di autorialità nell’antico non era così stringente come è oggi. I poemi omerici, ad esempio, l’opera che fonda le radici della cultura letteraria occidentale, sono opera di un autore che molto probabilmente non è mai esistito e che fa da maschera ad una composizione corale stratificatasi per secoli e secoli fra le mani di abili narratori, gli aedi, che largo spazio lasciavano all’intervento del pubblico nel loro racconto.
Al di là di tale esempio estremo, potremmo citarne molti per suffragare l’idea che il legame tra opera ed autore nel mondo antico non era così importante.
Molto più importante era comprendere cosa l’opera tentasse di dire, come questa si rapportasse con il reale modificando il pensiero e la condotta di coloro che l’ascoltavano, o – come più tardi avverrà con i poeti-filologi alessandrini – risanare il testo per dargli una veste coerente non con la forma voluta dall’autore, ma con la sua propria forma.
Che l’autore fosse un tramite, un mero strumento nelle mani delle Muse, utile per portare a conoscenza gli altri mortali del loro messaggio poetico, è un fatto che Omero, Esiodo, ma anche Euripide, Archiloco, Virgilio, e molti altri non mancano di sottolineare nelle loro stesse opere.
Certo, la loro opera doveva valergli l’immortalità – e del resto così fu -, ma l’impressione era che questa fosse raggiunta in un modo particolare. L’autore, infatti, era un mezzo, non l’origine della creazione di un messaggio. La sua fama era legata all’abilità di maneggiare la lingua nella trasmissione di un messaggio già scritto, per così dire, nelle stelle.
Barthes e l’approdo alla morte dell’autore
Nel suo saggio del 1968, Il brusio della lingua, Barthes prende in esame una frase nella novella di Balzac, Sarracine,e si chiede chi sia a pronunciarla: la protagonista? Un personaggio secondario? L’autore?
La sua conclusione – anticipiamola- è: nessuno. Questa risposta che ci pare tanto pessimista quanto assurda, in realtà non lo è affatto. Ciò che il critico sta cercando di dire (e che spiega subito dopo) è che
“la scrittura è distruzione di ogni voce, di ogni origine. È quel dato neutro, composito, obliquo, in cui si rifugia il nostro soggetto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità”.
In altre parole, sta dicendo che l’uomo non esprime e non può esprimere a pieno se stesso in un’opera scritta, in quanto egli è banalmente qualcosa di totalmente diverso da un muto libro: egli respira, parla, sente, soffre e infine scrive, ma non è la scrittura.
Nel momento in cui l’uomo racconta, infatti, si passa dall’identità propria ad un’altra identità: il testo. Laddove inizia l’opera, l’autore muore.
L’autore, secondo Barthes, è un personaggio moderno non meno inventato delle personalità che popolano le pagine dei suoi scritti. Esso nasce alla fine del Medioevo quando l’empirismo inglese e la riforma protestante accendono la miccia dell’individualismo.
L’uomo diviene di nuovo misura d’ogni cosa, sia essa la terra e le scienze o i testi e fra essi il Testo Sacro con cui, grazie a Lutero, intesse un rapporto diretto per la prima volta nella storia.
Da questo periodo fino al Romanticismo, l’importanza dell’autore diviene sempre più grande, quasi tirannica, fino a che non si finisce per sostenere che l’opera di Proust sia la sua vita e la pittura di Van Gogh la sua pazzia.
Ma evidentemente così non è: la vita è altro dall’opera.
Ma anche l’opera ha vita oltre l’autore.
E dopo la morte dell’autore? La rivincita del lettore
Borges diceva:
“che gli altri siano orgogliosi delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso di quelle che ho letto”.
La prospettiva che ci offre Barthes, infatti, non è del tutto distruttiva. Alla morte dell’autore non segue il nulla, ma la nascita di due nuovi protagonisti della letteratura di cui il critico deve occuparsi: il testo ed il lettore.
Non è forse l’opera stessa col suo contenuto ed il messaggio che veicola a rendere necessaria la lettura e la trasmissione? In parole più semplici: perché copiamo e leggiamo ancora Omero, Proust, Ovidio e Calvino quando la loro esistenza si è conclusa? E perché ricordiamo loro e non intellettuali forse più interessanti, ma improduttivi?
Secondo Barthes, è perché l’opera ha una vita oltre il suo creatore. L’opera è costituita dal messaggio che essa veicola, un messaggio che è mobile, non un dato tirannico dell’autore onnipotente.
Esso nasce dal reticolo delle migliaia di letture fatte dallo scrittore, è un textum (dal latino tessuto, reticolo) fatto di altri scrittori in senso strutturalista. Il messaggio è un tutto generato da singole parti amalgamate coerentemente e in modo diverso in ogni opera. Ecco lo spazio di originalità ricavato dagli autori antichi.
Un’opera dal senso che varia attraverso i secoli, in virtù degli occhi dei lettori che nel complesso dei richiami e dei significati del testo – molto più grande di chi lo scrive – prendono ciò che serve a sé e alla loro epoca.
Ecco che morto l’autore, l’opera gli sopravvive e a questo, ci dice Barthes, dovrebbe far attenzione un bravo critico. È forse l’ora della rivincita di noi lettori.
Noemi Ronci per Questione Civile