Dalla “cucina del senza” partigiana ad un cibo che ha il sapore di libertà
La “cucina del senza” è quella che meglio descrive le condizioni alimentari che i Partigiani erano costretti a subire nel periodo della Resistenza, ovvero quel periodo antecedente alla Liberazione Nazionale.
È chiamata così, del “senza”, proprio perché definisce un quadro ben preciso dei beni alimentari che essi non avevano a disposizione quotidianamente. Generi alimentari essenziali che mancavano e che, quindi, venivano sostituiti da surrogati. Un esempio era la cioccolata senza cacao, il caffè senza caffè o i dolci senza lo zucchero. Una cucina povera alimentata dalla forza della disperazione.
Con l’avvento della Liberazione dal regime, l’intero panorama Nazionale ha potuto godere della “Liberazione” di molti sapori, sebbene con un avvio molto stentato, a causa del collasso che il settore alimentare aveva subito.
Nonostante le numerose difficoltà nel risollevare questa opera di assistenza, si arrivò comunque ad un modesto successo, poiché si iniziò ad interrompere quella spirale di malnutrizione e si entrò faticosamente in una risalita per lo meno verso gli standard prebellici.
La “cucina del senza”: la dura conquista degli approvvigionamenti durante la Resistenza
Un’Italia divisa tra Partigiani, simbolo della Resistenza nazi-fascista, e i sostenitori del regime.
Proprio i Partigiani furono coloro che della “cucina del senza” ne fecero il loro pane quotidiano. Se già con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale la popolazione italiana soffriva la carestia per il razionamento alimentare imposto dal regime, questi ultimi combattevano una vera e propria guerra quotidiana per il cibo. Essenziale per continuare a resistere e non meno importante delle munizioni.
L’unico modo che i Partigiani avevano inizialmente per assicurarsi cibo giorno per giorno erano solamente i vecchi magazzini abbandonati, o quel che ne restava, dell’ormai sciolto regio esercito italiano. In essi era possibile trovare (se si aveva fortuna) sacchi con rimanenze di farina, legumi o del riso. Ciò era più probabile che accadesse nelle località di montagna, ovvero in Nord Italia.
Più tardi, sebbene spesso il buon senso di umili contadini aiutasse i poveri Partigiani nell’approvvigionamento di viveri attraverso donazioni spontanee, sarebbe ipocrita omettere i numerosi episodi di prelievo, più o meno forzato, a famiglie o proprietari più ricchi.
Questo ci fa riflettere su quanto per loro fu ancora più duro fare Resistenza nonostante la situazione del resto della popolazione fosse simile. Ma con la differenza che dovevano compiere tutto ciò in totale clandestinità tra le città e le montagne. Ed essere inoltre consapevoli che ogni giorno il cibo era un interrogativo ed anch’esso oggetto di conquista.
La dieta del Partigiano, la fame e la “cucina del senza” momenti di condivisione con i compagni
Per i Partigiani c’era veramente pochissima possibilità di assicurarsi più di un pasto al giorno e fare i conti con un regime alimentare basato sulla “cucina del senza”.
Gli alimenti presenti intorno ai loro fuochi e che costituivano il loro pasto principale erano: qualche fetta di polenta, ottenuta da avanzi di farina di mais, oppure castagne, rape, cipolle, patate bollite o ancora riso stracotto.
Le proteine animali erano un lusso, soprattutto per chi si trovava non in prossimità delle campagne, di rado mezzo uovo a persona per un solo giorno. La carne, inesistente, raramente donata sottoforma di salumi, di dimensioni adatte al trasporto. Per quanto riguarda i dolci, oltre alla frutta, bisognava recare speranza in qualche barattolo di marmellata regalato o qualche barretta di cioccolato surrogato.
Si pativa parecchio la fame e questa era tale che i Partigiani ne fecero anche argomento di canzoni. Queste rientrarono poi nelle canzoni della Resistenza, intonando parole di sofferenza condivisa per la fame. L’alimentazione ed il pasto rappresentavano un momento di condivisione, di socialità, di confronto, ed un sentirsi compagni di Resistenza nel pieno senso del termine.
Da non sottovalutare, però, l’aspetto fisico che il nutrire apportava a dei guerrieri come i Partigiani, utile per mantenersi in forza e in salute per portare avanti la loro lotta.
Il razionamento alimentare fascista
Lo scenario alimentare per il resto della popolazione italiana non era assai più generoso, anzi, le prime limitazioni alimentari risalgono al luglio del 1940. Un primo intervento di limitazione di generi alimentari al popolo fu caratterizzato dalla privazione di quei viveri per così dire “accessori”, come il caffè, i prodotti di pasticceria e i prodotti di gelateria.
Già da subito, la produzione di pane si limitò ad una sola tipologia, per la scarsa disponibilità di farine raffinate. Come non più tardi il divieto di vendita delle carni anche nei ristoranti ed il razionamento di grassi animali e vegetali. Circa 5 decilitri di olio, 300 grammi di burro, lardo o strutto a persona al mese.
La tessera annonaria come strumento di controllo
Più tardi, dal 1942, anno in cui si registrò il picco in numeri di carenze di viveri e di malnutrizione nazionale, per il popolo italiano il razionamento fu caratterizzato da un controllo giornaliero della quantità di cibo da distribuire ad ogni singolo cittadino. Ciò venne gestito e definito attraverso la Tessera annonaria, più tardi utilizzata anche per il vestiario che rimase in vigore fino al 1949.
Si trattava di una tessera che regolamentasse la vendita ad ogni singolo cittadino o al nucleo familiare la quantità di pane, patate, uova, legumi, formaggio e latte. E tramite la quale il popolo poteva richiedere su prenotazione una razione di viveri con cadenza settimanale o mensile.
Il razionamento determinò anche le caratteristiche dei singoli prodotti, tra tutti la qualità delle farine per la preparazione del pane. Si iniziò, infatti, ad usare una miscela di farine e legumi, oppure della farina poco raffinata definita farina abburattata per l’80%, ovvero poco setacciata e cioè ad elevato contenuto di crusca.
Il pane fu, infatti, uno dei maggiori alimenti a risentire di queste limitazioni, poiché quello che i panettieri producevano era pane scuro e spesso insipido, creato tramite una miscela di farina, crusca e farina di patate. Anche il sale era soggetto a razionamento.
Il tutto era penalizzato dalla quantità che inizialmente non poteva superare i 200 grammi mensili per persona (esclusi bambini, donne in gravidanza e addetti a lavori pesanti), successivamente diminuì a 150 grammi.
Per sopperire alle mancanze e alla fame, le donne praticavano la filosofia del riuso alimentare, adoperandosi e cercando modi di riutilizzare scarti alimentari, come le bucce delle patate o i torsoli di mele.
La “Pastasciutta Antifascista”
Nel periodo precedente alla Liberazione dal regime e dall’occupazione nazi-fascista, un avvenimento importante fece scalpore tanto da festeggiare e gioire in piazza. E con la notizia della caduta del fascismo e l’arresto di Benito Mussolini che, nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, la famiglia Cervi unita ad altre famiglie reggiane organizzarono una festa durante la quale offrirono a tutti, in strada, chili e chili di pasta al burro e formaggio, definita Pastasciutta Antifascista.
Acquistarono a credito burro e formaggio e accolsero in strada chiunque ci fosse con un piatto di pastasciutta, che divenne da quel giorno simbolo di libertà dal regime e dal duce.
Sebbene la liberazione dal fascismo avvenne 21 mesi dopo questo evento, tra il popolo si percepiva già da quel momento un sentimento di rivalsa ed indipendenza dalla dittatura.
Da quel momento in poi, l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) decise di riprodurre questa manifestazione ogni 25 luglio dell’anno in memoria di quella gioia e voglia di libertà.
Ancora oggi è mantenuta viva questa tradizione attraverso la riproduzione della stessa manifestazione svolta in tutta la provincia di Modena.
Una festa di una contemporaneità tale che nemmeno una pandemia come quella che stiamo vivendo ha fatto rinunciare ad una “pastasciutta antifascista” virtuale nell’edizione 2020.
La libertà gastronomica dopo il 1945
Con la Liberazione, l’Italia venne liberata sì dal regime e dall’occupazione nazista, ma non solo. Si diffusero, a partire dagli anni ’50, usi alimentari ben diversi da quelli del periodo bellico, nel quale si sviluppò una gastronomia nazionale piuttosto piatta e chiusa nel suo regionalismo.
Dalla Liberazione in poi, scompaiono dalla tavola degli italiani i piatti dalle lunghe preparazioni come la polenta, i legumi, le frattaglie ed alcuni ortaggi. Fecero la loro comparsa, invece, quei cibi ritenuti in precedenza troppo costosi come il petto di pollo ai ferri.
Questi fenomeni furono ampiamente influenzati dal boom economico, che favorì ai singoli cittadini, dagli anni ‘70 in poi, un aumento notevole della qualità della vita ed una conseguente attenzione sulle abitudini alimentari.
Sara Rocchetti per Questione Civile