La politica italiana e internazionale dei secoli di Dante
Un viaggio alla ricerca dei personaggi che plasmarono la politica del tempo di Dante, raccontati con l’aiuto delle parole del Sommo Poeta
Dante e i suoi personaggi: alla ricerca delle tracce della Storia
Dante Alighieri, il più famoso poeta della letteratura italiana, nacque a Firenze tra maggio e giugno del 1265. Cresciuto nella stessa città in un ambiente intellettuale di altissimo livello, Dante racchiude in sé e nella sua opera tutte le contraddizioni e le tracce dei secoli a cavallo dei quali si trova a vivere, il XIII e il XIV. Due secoli intrinsecamente diversi l’uno dall’altro, ma caratterizzati entrambi da rivolgimenti fondamentali per la storia italiana e fiorentina, oltre che europea.
Dante ci permette di osservare, infatti, da un lato le ultime braci di un impero ormai decaduto, ma nel quale ancora il poeta crede con una fede quasi religiosa. Dall’altra l’affermazione delle signorie e del comune popolare nell’Italia Centro-settentrionale, dal quale sarà profondamente deluso.
Un panorama storico complesso e sfaccettato è quello all’interno del quale si trova ad operare Dante Alighieri. Proprio la sua opera magna, la Commedia, ci permette di indagare le grandi personalità e i grandi eventi storici che ne caratterizzarono la vita.
“Io son Manfredi, nepote de Costanza imperadrice”: Dante e la caduta degli Hohenstaufen
Un giovane biondo, bello e di “gentil aspetto”: con queste parole Dante descrive, nel terzo canto del Purgatorio, Manfredi di Svevia, una delle figure più tragiche rappresentate nella Commedia. Dante e Virgilio incontrano lo spirito del sovrano sulla spiaggia del monte del Purgatorio. Il destino riservato dal poeta ad un uomo morto scomunicato mostra già l’ammirazione che l’autore doveva provare per il personaggio storico che occupò con forza il palcoscenico la politica italiana dopo la metà del 1200.
La seconda parte del XIII secolo si caratterizzò per il definitivo declino della cometa imperiale della famiglia Hohenstaufen. Federico II, lo Stupor Mundi come era stato soprannominato, morì il 13 dicembre 1250, lasciando lo schieramento imperiale nel caos. Il sogno unificatore di Federico si infranse con la sua morte. Al trono imperiale salì, dopo anni di lotte interne alla nobiltà germanica, Enrico VII di Lussemburgo. In Sicilia invece dopo ben otto anni di lotte fratricide, il sangue federiciano prevalse.
L’erede di Federico II: Manfredi
Nel 1258, infatti, divenne re di Sicilia Manfredi, figlio naturale di Federico II, poi legittimato dall’imperatore. Il ventiseienne Manfredi si erse a questo punto come ultimo rappresentante della politica ghibellina intrapresa dal padre. Fu grazie al suo esercito che i senesi sconfissero i fiorentini a Montaperti nel 1260.
L’affermazione di Manfredi nel Meridione, seppur contestata dai papi che continuavano a sostenere suo nipote Corradino, era inevitabile. Represse con il pugno di ferro le rivolte baronali che ne avevano minato il principio del regno. Il giovane re governò seguendo i programmi politici e culturali del defunto padre.
L’arrivo di Carlo d’Angiò e la perdita del supporto dei ghibellini italiani, finirono però per costargli il regno e la vita. Il 26 febbraio 1266 sotto le mura della città di Benevento si consumò l’ultimo scontro tra il pretendente francese al trono siciliano e Manfredi. Gettatosi nella mischia nel tentativo di imporre una svolta alla battaglia, che volgeva al peggio per il suo esercito, perì sotto le spade dei nemici.
Solo dopo tre giorni dal termine della battaglia, il suo corpo fu ritrovato e riconosciuto dai nemici, che gli riservarono un triste destino. Manfredi, infatti, fu sepolto senza cerimonie religiose, in quanto ancora condannato alla scomunica, presso il luogo della battaglia. In seguito, il suo corpo fu riesumato dal vescovo di Cosenza su ordine di papa Clemente IV e nuovamente seppellito in un posto segreto sulle sponde del fiume Liri.
Il tentativo maldestro di cancellare la memoria del re di Sicilia fallì. Certo, con la morte di Manfredi tramontò definitivamente la parabola politica degli Svevi. La morte improvvisa del padre e quella spettacolare e drammatica del figlio contribuirono però a consacrare il mito della casa imperiale tanto da arrivare fino a Dante, che contribuì a fissarne il ricordo nella memoria collettiva.
Dante, la discesa di Enrico VII e la parte ghibellina: “L’altro appropria quello a parte”
Vari passi dell’intera Commedia fanno riferimento alla discussione delle sue opinioni politiche, in particolare riguardanti lo Stato e l’Impero. Il sesto canto del Paradiso, canto politico per eccellenza, narra, attraverso le parole dell’imperatore Giustiniano, residente del cielo di Mercurio, la storia dell’aquila imperiale attraverso i secoli. L’argomento permette a Dante di fare due profonde critiche ai politici del suo tempo, sia ai guelfi, sostenitori del papa e della Francia, sia ai ghibellini, sostenitori dell’imperatore.
In seguito alle avventure politiche degli Svevi e al loro fallimento, l’Impero aveva smesso di avere un vero e proprio ruolo in Italia. Dal punto di vista politico, i grandi Comuni avevano ottenuto, a seguito delle guerre con Barbarossa e con la pace di Costanza del 1183, le libertà che si erano visti a lungo sottratte. L’autorità imperiale, secondo quanto stabilivano i trattati, rimaneva il fondamento di ogni potere pubblico, ma gli imperatori non ne ricavavano più alcun vantaggio pratico.
Anche dal punto di vista militare, l’impero non aveva più una primazia in Italia: le battaglie degli imperatori e le loro sconfitte contro le milizie italiane lo dimostravano. La pace di Costanza autorizzava i Comuni ad avere una propria milizia e proprie fortificazioni. Ciononostante, sporadiche discese di imperatori di Germania a caccia di alleati e legittimazione continuarono per tutta la prima metà del XIV secolo. Queste fungevano come una sorta di legittimazione per loro stessi, con l’antico e ormai quasi privo di significato cerimoniale dell’incoronazione romana ad opera del papa, e per i loro alleati. Dove i Comuni di popolo, infatti, faticavano ad affermarsi, il governo ricadeva su figure quali i vicari imperiali, spesso membri dell’alta aristocrazia ghibellina, quale fu Matteo Visconti a Milano a partire dal 1311.
L’elezione di Enrico VIII
Eletto imperatore il 27 novembre 1308 e incoronato nell’antica capitale carolingia di Aquisgrana, Enrico VII di Lussemburgo raccolse la difficile eredità e la disastrata potenza imperiale a seguito della fine dell’avventura sveva. Riprese però dai suoi predecessori alcuni dei temi della loro politica: in primo luogo, progettò immediatamente una spedizione in Italia, in modo da essere incoronato a Roma e riportare in Italia la pace imperiale. La sua discesa, infatti, nell’ottica di coloro che favoreggiavano la sua elezione, come lo stesso Dante, avrebbe finalmente portato alla pacificazione tra i guelfi e i ghibellini, in lotta ormai dai tempi di Federico I.
La discesa in Italia, che fu continuamente ritardata dal nuovo imperatore a causa delle politiche germaniche, avvenne infine solo nel 1311 e si concluse tragicamente. Non solo, infatti, Enrico non ottenne alcuno dei risultati che si era prefissato e la sua venuta non fece altro che esacerbare i conflitti tra i guelfi e i ghibellini, ma l’avventura italiana gli costò la vita. L’imperatore morì a Siena due anni dopo il suo arrivo in Italia.
Dante e la politica fiorentina del 1200: “Vedi là, Farinata che s’è ritto”
Uno dei momenti più celebri dell’intera opera dantesca è sicuramente l’incontro tra il poeta, Virgilio e Farinata degli Uberti, immaginato nel canto X dell’Inferno. Farinata si trova punito all’interno delle mura della città di Dite “la città de foco” nelle parole del personaggio stesso. È questo il girone entro il quale sono puniti gli eretici e in particolare gli epicurei.
Evidente è però da quanto si legge nel canto, che la colpa ascritta da Dante al nobile fiorentino è tutta politica. Dalle prime, celeberrime battute, il dialogo infatti si incentra completamente attorno alla politica fiorentina degli anni che avevano preceduto Dante. Il motivo per il quale Farinata dice di esser stato “molesto” a quella “nobil patria” è da indagarsi nella vita del personaggio stesso e nelle sue politiche.
La Firenze di Farinata degli Uberti
Farinata degli Uberti, nobile fiorentino vissuto nella prima metà del 1200, fu uno dei principali capi della parte ghibellina fiorentina, che governò la città negli anni Quaranta del XIII secolo. La sua definitiva affermazione a capo di Firenze si ebbe però negli anni ‘50. Fu allora che divenne protagonista della campagna militare nell’Aretino, sotto la guida di Federico di Antiochia, figlio di Federico II, al tempo vicario di Toscana per il padre. Il suo momento di maggior popolarità presso gli imperiali, tanto che la sua famiglia fu omaggiata dallo Svevo con tre castelli, scatenò anche la sua caduta e la caduta della sua parte.
Negli anni che seguirono alla prima cacciata degli Uberti da Firenze, Farinata tentò diverse volte di abbattere il regime popolare sia dall’interno che dall’esterno della città, fungendo da rappresentante di Manfredi a Siena e combattendo contro i Fiorentini a Montaperti. Il suo ritorno a Firenze, a seguito del “grande scempio che fece l’Arbia colorar di rosso”, lo consacrò negli anni a seguire come il più autorevole dei cittadini fiorentini. Tutto questo fino alla sua morte, avvenuta probabilmente dopo il 1263. Il regime ghibellino non sopravvisse a lungo al suo maggior fautore: i suoi, infatti, come conferma lo stesso Dante, “non appresero ben quell’arte”. Il governo oligarchico fu presto sostituito dal regime delle arti e anche a Firenze. Infine, poco prima della nascita di Dante si affermò il governo di popolo.
Dante e la sua esperienza politica: “Non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna ‘n dietro”
In diversi punti dell’Inferno, Dante si sofferma a riflettere sulla sua esperienza di politico fiorentino e sull’esperienza dell’esilio. Il canto XV è sicuramente uno di questi casi. Usciti dalla foresta dopo l’incontro con Pier delle Vigne, Dante e Virgilio si trovano in una zona desertica, tempestata da una pioggia di fuoco. Si tratta del terzo cerchio del settimo girone, dove sono puniti i violenti contro Dio. Tra di loro, nella schiera dei sodomiti, Dante trova il suo vecchio maestro, l’intellettuale fiorentino Brunetto Latini. L’incontro con Brunetto, oltre a costituire un toccante momento di ricongiungimento tra l’allievo e il maestro prediletto, dà a Dante l’occasione per parlare della sua opera politica e conseguentemente del suo esilio.
Dante, infatti, subì l’esilio a causa di un provvedimento del 1293 che passò alla storia come “Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella”. La cacciata dei ghibellini non placò infatti le famiglie magnatizie fiorentine, che si trovavano nella parte guelfa tanto quanto nella parte ghibellina. Al fine di stabilire la pace interna una volta per tutte e di proteggere il governo del priorato delle arti, nel 1293 furono proposti, da Giano della Bella, un nobile passato dalla parte popolare, nuovi provvedimenti. Questi predisponevano delle pesanti pene per i magnati, ovvero i grandi nobili, e per le loro violenze.
Lo scontro tra fazioni tanto quanto le violenze nobiliari non furono nuovamente placate. La contrapposizione interna tra guelfi e ghibellini era infatti stata sostituita nei primi anni del XIV secolo da una nuova lotta fazionaria interna alla stessa parte guelfa. Da un lato vi era la famiglia dei Donati, che capeggiava la parte dei guelfi neri; dall’altro vi era la famiglia dei Cerchi, che era a capo della parte dei guelfi bianchi.
Il ruolo politico di Dante e la sua condanna
Fu in questo ambiente, di progressiva e continua tensione tra le due fazioni, che Dante visse la sua esperienza politica. Ricoprì infatti diversi ruoli governativi, tra i quali il priorato nell’anno 1300 ed è a questi ruoli che Brunetto si riferisce nella sua profezia. Il maestro infatti, nella finzione letteraria, pronuncia una delle tante profezie post eventum del poema. Avvisa Dante che “quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, […] ti si farà, per tuo ben far, nimico”. Associato alla parte dei Bianchi, quando i Neri, cacciati negli anni che avevano seguito il suo priorato, rientrarono in città, Dante fu uno dei tanti politici fiorentini a subire la sorte che era toccata a Farinata. Nel 1301, alla vittoria dei Neri, Dante subì l’esilio e poi la condanna di morte in contumacia.
Non ritornò più a Firenze, fino alla morte nel 1321 presso Ravenna. Dante fu simbolo, con la sua grande opera dell’esilio, la Commedia, e con la sua stessa vita, della turbolenza e dell’incertezza della politica italiana della prima metà del secolo XIV.
Martina Parini per Questione Civile
Bibliografia
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