Festa del cinema di Roma: 9+1 frammenti dalla Selezione ufficiale
In questo articolo, un po’ fuori dai canoni dell’Archivio di Storia del Cinema o di altri luoghi che pure avete imparato a conoscere in Questione Civile – XXI, ripercorriamo in breve dieci film della 16a edizione del Roma Cinema Fest, o più semplicemente, la Festa del Cinema, tenutasi appunto a Roma dal 14 al 24 ottobre 2021. Nessun filo conduttore attraverso questo articolo, va letto perciò per quello che è: una grande e confusa fotografia del cinema attuale.
The Eyes of Tammy Faye di Michael Showalter
Il film d’apertura di questa edizione della Festa è un rifacimento. La storia ripropone narrativamente l’omonimo documentario del 2000. La vicenda lunga e forse non così emozionante come ci aspetteremmo prima del film è quella di Tammy Faye e di suo marito Jim Bakker. Essi da giovani seminaristi all’università pastorale diventano i tele-evangelisti più conosciuti degli Stati Uniti e non solo. Partiti da una piccola rete locale ed arrivati a fondare un loro network, l’ascesa dei due è vertiginosa. I nostri buoni evangelisti hanno un peccato che più di tutti fa presa nei loro cuori: la cupidigia. Debiti e problemi finanziari, ma anche tradimenti e scandali sessuali serpeggiano nella retorica – e forse – nella morale dei due protagonisti.
Il film di Showalter non è un semplice biopic: The Eyes of Tammy Faye parla degli Stati Uniti attraverso gli «occhi» di Tammy che sono gli occhi della fede religiosa. Una fede che sicuramente non è agostiniana: lo zelo religioso di Tammy e Jim sembra più vicino a quello dei sacerdoti del sinedrio, che usano la loro conoscenza della religione, la loro chiave di lettura del Verbo e delle Scritture per giustificare le loro azioni deplorevoli in quanto uomini.
Vorremmo dire che Tammy e Jim imparano qualcosa dal loro crollo sociale e morale quando questo li porta o al limite dell’indigenza o in carcere, ma forse così non è. L’ultima scena mostra una Tammy a cui più che mancare la voce della coscienza sembra mancare lo share e la fama televisiva.
L’Arminuta di Giuseppe Bonito
Tratto dal romanzo di Donatella di Pierantonio, premio Campiello 2017, il film è uno dei pochi italiani in Selezione ufficiale alla Festa.
La protagonista è una tredicenne senza nome: ci si riferisce a lei come l’«arminuta», che in dialetto abruzzese vuol dire la ‘restituita’. La bambina di fatti viene restituita alla sua famiglia d’appartenenza dopo aver vissuto in una sorta d’adozione con gli zii per i primi tredici anni di vita. Il salto sociale della protagonista è un salto molto alto e soprattutto un salto all’indietro. Da benestante, abituata agli svaghi borghesi e alla città, la nostra Arminuta si ritrova nell’entroterra abruzzese con una famiglia che non conosce ma che sa essere la sua. Inolre si ritrova con un’educazione alle spalle che ha ricevuto ma che sa non essere quella che le sarebbe spettata. Il disagio della ragazza cresce mentre aumenta la consapevolezza che indietro alla vita di prima non potrà mai tornare.
Quello che racconta l’Arminuta è la società di un’Italia che fatica ad apparire al cinema se non per rari ed eloquenti esempi (vedi Brutti, sporchi e cattivi di Monicelli).
Il finale scioglie i pochi dubbi narrativi che la vicenda aveva sollevato, ma è cosa di poco conto se teniamo in considerazione come centro fondante proprio l’inadeguatezza delle figlie e delle madri che il film e il romanzo raccontano.
Cyrano di Joe Wright
Il regista Joe Wright ha dimostrato in passato con Anna Karenina o l’Ora più buia di saper raccontare una storia dentro la Storia con una precisione e un’aderenza stilistica invidiabili nel panorama cinematografico attuale. Con il suo Cyrano, Wright è però riuscito a dimostrare come può rimettere insieme una storia fondativa del teatro moderno utilizzando uno stile e una maestria assolutamente unici.
Il Cyrano di Rostand è una commedia propriamente settecentesca che spinge già verso il romanticismo. Quello di Wright è un Cyrano divenuto in tutto e per tutto un melodramma, più che un musical. La prima parte è sì una commedia come il teatro moderno la intende, ma la seconda parte lascia spazio ad una drammaticità pura che non ci aspetteremmo.
La colonna sonora e i costumi inoltre non passano assolutamente inosservati. Ogni canzone è difatti funzionale ad apparire sia come un’aria che come un coro del teatro classico, lasciando libero l’animo dello spettatore di dar spazio alle sue angosce sui sentimenti e sull’amore nel senso più romantico possibile.
Mothering Sunday di Eva Husson
Alla Festa in linea di massima sembra non poter mai mancare un british drama duro e puro.
La storia è quella attesa: Jane, domestica di una famiglia altoborghese a metà anni Venti si innamora di Paul, unico figlio sopravvissuto alla Prima guerra mondiale di una ricca famiglia, amica di quella in cui è al servizio la protagonista. La narrazione avviene post eventum: la nostra racconta le proprie vicende circa un ventennio dopo mentre sta scrivendo il romanzo sulla prima parte della sua vita.
In realtà per quanto questa breve sinossi possa far apparire Mothering Sunday un film stereotipico questo non lo è. Tutti i personaggi sono uomini e donne di buon cuore che hanno molta contezza del mondo. Quelli che vengono messi in risalto non sono solo i loro privilegi, quanto la poca pragmaticità escludendo nel merito il protagonista maschile Paul.
Tutti sono come assorti dai verdi prati e dai sofisticati pic-nic tanto da dimenticare la decadenza delle loro vite, almeno dal punto di vista spirituale. La scena che anticipa il climax del secondo atto è molto eloquente in merito.
Lo scioglimento della vicenda è invece lasciato alla narrazione contemporanea, dove la nostra Jane ormai più che adulta è riuscita a sublimare – grazie a «una stanza tutta per sé», come il romanzo di Wolf – nell’esercizio letterario le sofferenze sentimentali patite.
One second di Zhang Yimou
Primo film internazionale da noi visionato alla Festa del cinema di Roma di un autore cinese.
One second racconta quanto piccoli dettagli possano essere di importanza vitale per coloro che nulla hanno se non ciò. Il protagonista è un forzato che è fuggito dalla sua fattoria-prigione per cercare una pellicola cinematografica in mano alla seconda unità. Tali unità sono dei trasportatori di pellicole cinematografiche per tutto il paese, dalle città ai piccoli luoghi di provincia, per permettere al pubblico di vedere i prodotti audiovisivi forniti dal regime in ascesa di Mao.
In realtà il sottotesto del regime propagandistico è di per sé solo di contorno alla vicenda che è tutta proiettata sull’intimità del nostro protagonista che dopo alterne vicende riesce finalmente a vedere non tanto il film, quanto la bobina contenente il cinegiornale mensile.
All’interno di questo breve filmato vi è un singolo secondo in cui si vede sua figlia, una giovane ragazza, che viene ripresa mentre aiuta a caricare dei sacchi.
La storia è tutta qui. Il nastro finisce persino per essere ritrovato e riportato come recidivo in prigione, ma non importa: ha potuto poco prima vedere ancora e ancora quel singolo secondo in cui sua figlia sembra persino guardarlo attraverso l’obiettivo della camera.
Promises di Amanda Sthers
La pellicola inglese è un adattamento di un romanzo francese. La spinta del cinema d’autore europeo su questo film è molto forte, dato che segue didatticamente gli insegnamenti di tanti maestri del genere. Manzione d’onore per il protagonista che uno spirito irrisolvibilmente patriota ci spinge a ricordare come sia Pierfrancesco Favino. Il campione dello star system italiano in questo film dimostra ancora – e ancora – il suo incredibile talento recitando per 113 minuti totalmente in inglese.
La storia è quella di un amore che non riesce a trovare il proprio posto nel mondo, nonostante i nostri personaggi non sembrino particolarmente restii ad alti livelli di responsabilità. Eppure, i matrimoni precorsi rimangono tali e la storia d’amore che aspettiamo intensamente per tutto il tempo non esplode mai.
Promises più che di ‘promesse’ parla del tempo che passa e di come se ne possa a stento cogliere la momentaneità, figuriamoci il fluire. Sthers cerca comunque in ogni modo di farci vedere quanto ciclico e ricorsivo sia questo nostro tempo mortale. Sandro (Favino) fatica a decidere qualsiasi cosa, e sembra quasi che debba essere la narrazione a indicargli cosa fare. Per quanto il tempo cammini inesorabile, i nostri personaggi sembrano immobili.
The North Sea di John Andreas Andersen
Per quanto sia ancora un film di cinema europeo, The North sea, come tante altre pellicole dal medesimo destino, è un film norvegese e in quanto tale fatica ad arrivare sugli schermi dell’Europa occidentale. Un diverso destino l’ebbe un anno fa Another round di Vinterberg presentato alla 15a Festa del cinema di Roma e poi vincitore dell’Oscar al miglior film straniero.
The North Sea non è sicuramente un film da Oscar, eppure può dire qualcosa. Esso è in tutto e per tutto un film di genere. Una faglia sottomarina nel Mare del Nord inizia ad aprirsi inghiottendo ed affondando tutte le piattaforme petrolifere che sono state costruite su di essa. I nostri protagonisti si ritrovano più o meno direttamente invischiati nel dramma naturale.
Andrà notato con estremo piacere che pur nella sua semplicità, il film non rifiuta la narrazione critica nei confronti dell’abuso umano dell’energia combustibile. La natura è matrigna e selvaggia, ma solo perché è l’uomo a stuzzicarla con un bastone appuntito. In secondo luogo, andrà notato come l’universo filmico non sembra mistificare un fatto naturale. Quello presentato è tutto sommato un evento naturale che ha le stesse probabilità di una nuova eruzione vesuviana. Non è detto che accada in tempi brevi ma è in primo luogo ampiamente plausibile e in secondo luogo assolutamente imprevedibile.
L’impatto visivo e l’intreccio narrativo sono ampiamente adeguati e si lasciano godere con tranquillità. Per quanto il film non abbia un budget da kolossal, i pochi effetti speciali usati sono calibrati e studiati con eleganza, senza strafare e ridicolizzare una delle scene più drammatiche e di suspense di tutta la storia.
C’mon c’mon di Mike Mills
C’mon C’mon vede il ruolo di protagonista svolto da Joaquin Phoenix che, come Favino in Promises, è il volto dell’esperto di questo film. Qui però la scena la divide con il protagonista infantile, il giovane Jesse interpretato dal veramente giovanissimo Woody Norman. Un po’ romanzo di formazione e un po’ road movie, C’mon c’mon racconta di questo zio giornalista che prende per bada per qualche tempo a suo nipote, mentre la sorella è impegnata a portare il padre del piccolo Jesse in terapia data la sua schizofrenia. Johnny (Phoenix) si ritrova involontariamente a fare da padre. Deve imporre malamente la sua adultità ad un bambino cresciuto con una madre, sua sorella peraltro, che non è mai stata poi così seria come lui.
L’altro pezzo del racconto è quello delle inchieste. Non troppo spesso intervallate alla narrazione principale, Johnny e alcuni colleghi girano gli Stati uniti per intervistare ragazzi e adolescenti su cosa pensano del futuro loro, del pianeta e della società.
Le inquietudini di questi giovani americani sono quelle che ci aspettiamo, ma il film dimostra come per quanto il nostro giornalista sia interessato a come i giovani vedano il mondo, sembra totalmente inadatto a trattare lui stesso nella vita quotidiana con uno di questi giovani che hanno le chiavi del futuro.
Belfast di Kenneth Branagh
L’Irlanda del Nord negli anni Settanta non è il più tranquillo e «occidentale» dei luoghi d’Europa. Gli scontri e le tensioni tra protestanti e cattolici sono insostenibili. A Belfast soprattutto, l’IRA, l’organizzazione terroristica, assalta interi quartieri residenziali. È questo il caso del quartiere dove abita il nostro giovane protagonista Buddy che la mattina di Ferragosto del 1969 viene attaccato con molotov e armi da fuoco proprio dall’IRA.
Cercando di cogliere alcuni momenti salienti dei mesi più caldi degli scontri, Belfast si fa pellicola molto politica nel panorama della Festa del cinema. Il nostro protagonista vive quasi in un idillio familiare. Non hanno molti soldi, il padre è molto assente da casa, eppure l’amore che i genitori, il fratello e i nonni provano per questo piccolo irlandese sembra cancellare per molte scene dalla mente dello spettatore ciò che succede al di fuori delle mura di casa.
Buddy difatti alterna la casa sua, quella dei nonni e la scuola. Luoghi sicuri insieme così come poco prima era la strada in cui abita, ora luogo barricato per fronteggiare la guerriglia urbana che promette costantemente attacchi.
L’attacco sul finale arriverà, e sarà però Buddy a finirci in mezzo, ad andare incontro al male. Sarà proprio l’amore dei suoi a trascinarlo fuori da questo male involontario e a sopravvivere – restando e/o fuggendo – ad un’orrenda pagina del nostro passato recente.
Essere Giorgio Strheler di Simona Risi
Il titolo di questo articolo parla di nove frammenti più uno. Siamo difatti arrivati proprio a questo. Il documentario Essere Giorgio Strheler è esterno dalla Selezione ufficiale, ed è diverso da tutto quanto abbiamo visto.
In 70 minuti, Simona Risi racconta una delle figure non tanto più eclettiche del panorama del Secondo Novecento italiano, ma una delle figure più statuarie di questo.
Regista e sceneggiatore teatrale, Strheler è riuscito insieme al socio Grassi a costruire fisicamente il Piccolo Teatro a Milano, ma programmaticamente a costruire un teatro che fosse insieme popolare, nazionale e canonico. Nell’Italia post-bellica chi va a teatro lo fa per vedere degli spettacoli che siano un facile intrattenimento, «pane e circhi» direbbe Giovenale. Strheler invece riesce a mettere sul palco il grande teatro europeo di Shakespeare e Brecht in un modo che fosse a tutti fruibile la grande storia culturale nello spazio di un teatro di quartiere.
Simona Risi racconta modernamente questa storia, lasciando molto poco spazio alla narrazione degli eventi e molto di più ai pensieri che lo stesso Giorgio ci ha lasciato.
Concludiamo perciò così come Giorgio conclude una delle sue ultime interviste, con le parole di Brecht sul teatro, che noi usiamo oggi un po’ impropriamente anche per questo cinema:
«Il destino dell’uomo è l’uomo»
Salvo Lo Magno per Questione Civile