La nuova città di Firenze agli occhi di Dante
Dante Alighieri è vissuto in un periodo davvero particolare della storia economica di Firenze. Difatti, il periodo a cavallo tra Duecento e Trecento ha rappresentato un periodo d’oro per la città. Viene dunque da chiedersi perché Dante non ne parli quasi per niente nelle sue opere.
L’espansione di Firenze tra Duecento e Trecento
Tra fine Duecento e inizio Trecento, Firenze testimoniò un periodo di grande fioritura e rinnovamento. La città che il poeta dovette lasciare al momento dell’esilio nel 1302 divergeva notevolmente per aspetto e dimensioni da quella in cui nacque nel 1265. In quegli anni, infatti, Firenze testimoniò una notevole crescita economica ed espansione urbanistica. Mai più la città riuscì ad eguagliare lo splendore e la grandezza raggiunta in quei decenni. Il suo declino iniziò già qualche anno prima della peste del 1348.
Cosa caratterizzò dunque la Firenze ai tempi di Dante?
Firenze passò a contare da soli 15.000 abitanti nella prima metà del XII secolo a 50.000 ad inizio Duecento per raggiungere i 100.000 nel Trecento. Nel Trecento, dunque Firenze si ritrovò ad essere insieme a Milano, Venezia e Parigi tra le città più popolose d’Europa. Questa crescita demografica andò di pari passo con una crescita economica della città.
L’economia cittadina era inoltre contraddistinta da una notevole industria laniera che forniva lavoro ad un’ampia porzione della popolazione urbana e permetteva un’integrazione di reddito a fasce di popolazione rurale. L’espansione demografica fu soprattutto dovuta al flusso migratorio di contadini provenienti dalle campagne per cercare fortuna in città. Con il passare degli anni, ciò comportò la costruzione di nuove cinte murarie che potessero ospitare la popolazione in continua crescita. Le dimensioni raggiunte dalla città in quegli anni segnarono l’apogeo dello sviluppo urbano di Firenze e non furono più eguagliate per molti secoli. A questa espansione urbanistica corrispose la costruzione di nuovi monumenti che potessero rispecchiare il ruolo di spicco che Firenze stava assumendo in Europa in quegli anni.
Firenze e i mercanti fiorentini
L’intensa crescita economica della città consentì un altrettanto intenso rinnovamento edilizio, incremento dei consumi e crescita del settore del lusso soprattutto nel campo dell’abbigliamento.
Proprio in quegli anni la mercatura iniziò ad acquistare un ruolo di spicco. Lentamente si fece largo un inarrestabile desiderio di guadagno e ci si iniziò a cimentare in nuove tecniche di affari. Inoltre, si iniziò a diffondere l’abitudine di scrivere libri di conti e di varia amministrazione, lettere commerciali e trattati di mercatura. È proprio in questo periodo che il banchiere fiorentino Francesco Balducci Pegolotti scrisse la Pratica della mercatura, il più famoso manuale di commercio del Medioevo.
La Firenze di quel tempo può essere facilmente comparata alle grandi metropoli contemporanee quali Londra o New York. Infatti, la città rappresentava il fulcro degli scambi internazionali.
Non c’è dunque da stupirsi se a inizio Trecento i mercanti fiorentini rappresentassero la più grande potenza economica e finanziaria d’Europa. Era infatti comune trovare colonie di banchieri e mercanti fiorentini sparsi in giro per le città europee.
Se da una parte Firenze fu, a inizio Trecento, tra i centri maggiormente coinvolti da questa rivoluzione commerciale e affermazione della nuova borghesia, dall’altra era ancora evidente una notevole stratificazione della ricchezza all’interno della popolazione con una forte presenza di lavoro salariato e di fasce di popolazione povera alternate ad una consolidata classe di artigiani e bottegai.
Firenze agli occhi di Dante
Lo sviluppo economico che coinvolse la città ebbe anche un forte impatto, più che altrove, sugli ideali economici e la morale del tempo. L’ampliamento urbanistico portò ad una maggior eterogeneità della popolazione e alla contaminazione dell’ordine e dell’assetto sociale originario, risultando in un repentino degradamento della morale e dei costumi locali.
Dante visse e si formò proprio in questo ambiente. Tuttavia, data la sua mentalità tendenzialmente arcaica e aristocratica, si sentì sempre in opposizione con questi nuove ideali e con i suoi sostenitori. È dunque naturale che gli accenni al fervore economico della Firenze di inizio Trecento siano esigui nelle opere dantesche. Anzi, molto spesso le allusioni presenti nelle opere rispecchiano appieno il noto dissenso di Dante in materia.
Il fiorino d’oro
Nonostante gli accenni di natura economica riscontrabili nelle opere dantesche siano pochi, il poeta non si risparmia di condannare con fervore il simbolo più tangente dell’affermazione borghese e dello sviluppo economico di Firenze: il fiorino d’oro. Questa moneta venne coniata nel 1252 e ben presto divenne il maggior strumento di scambio nel commercio internazionale. Il disprezzo di Dante per questa moneta era talmente elevato che non a caso vi si appella con l’espressione «maledetto fiore» nel canto IX del Paradiso. Qua, per bocca di Folchetto lancia una feroce invettiva contro quello strumento diabolico. Difatti, tramite le operazioni bancarie effettuate dai fiorentini, il desiderio dell’oro si era diffuso anche all’interno del clero cristiano, trasformando molti suoi membri da pastori in lupi avidi di ricchezze.
La fame dell’oro
Notevole è il disprezzo di Dante verso ogni forma di cupidigia di oro e ricchezza. Sia nell’Inferno che nel Purgatorio avari e prodighi vengono sottoposti alla stessa pena, perché agli occhi del poeta le loro azioni sono mosse dallo stesso irrefrenabile desiderio di ricchezza. L’unica differenza è che i primi accumulano ricchezze per il piacere stesso del possesso, mentre i secondi per sperperare senza alcuna misura. Tra i due peccati è, però, senza ombra di dubbio peggiore l’avarizia. Presente tra i sette vizi capitali tradizionali del Medioevo, Dante la descrive nel canto I dell’Inferno quale la più gande forma di corruzione del suo tempo. In più di un’occasione scredita coloro che si sono macchiati di tale peccato. Tra questi spiccano figure di rilievo quali papi e cardiali, sovrani, letterati, ma anche intere cittadinanze o popoli come i Fiorentini e i Catalani.
Infine, per quanto riguarda l’usura, la concezione di Dante non rispecchia le pratiche allora accettate anche dai religiosi, ma il pensiero della Scolastica e della Chiesa secondo cui era illecito richiedere un interesse sul denaro prestato. Il poeta condanna l’usuraio perché costui ripone la propria speranza unicamente nel denaro, disprezzando sia la natura che deriva da Dio che l’arte che si modella sulla natura.
La nuova borghesia di Firenze
La crescita economica che interessò Firenze a cavallo tra Duecento e Trecento vide, dunque, la nascita di una nuova borghesia. Questa novità però, non venne gradita dal sommo poeta. Nel canto VII del Purgatorio, Dante si lamenta di come «orgoglio e dismisura» avessero ormai preso il posto di valore e cortesia, antiche virtù cavalleresche. Egli cita anche «gente nova e i subiti guadagni» quali nuovi protagonisti della vita fiorentina, non più caratterizzata dagli ideali cavallereschi e dal valore militare. Dante, dunque, assiste ad un vero e proprio sovvertimento dell’ordine sociale a Firenze.
È proprio in questo periodo che molti contadini si riversano dalle campagne in città con la speranza di far ricchezza. La mite descrizione che Dante fa di contadini e pastori che lavorano i campi è in netto contrasto con l’aspra satira anticontadina che riecheggia in alcuni canti danteschi. L’orgoglio aristocratico di Dante lo porta a disdegnare tutti quei contadini arrivati in città per rimpinguare le schiere di mercanti e affaristi.
Dante e il sogno retrospettivo
Lo sdegno nei confronti di questa nuova cittadinanza fiorentina composta da villani dediti al commercio porta il poeta a rifugiarsi nel sogno retrospettivo di una cittadinanza ancora pura. Il sogno del poeta è dunque il ritorno ad una Firenze quasi utopica. Si tratta infatti della Firenze dell’età dell’oro tipica dell’immaginario medievale. Con età dell’oro non si fa però riferimento al regno dell’uguaglianza sociale o dell’abbondanza, ma ad una città sobria e onesta. La città immaginata da Dante è quella descritta da Cacciaguida nel XV canto del Paradiso. Si tratta dunque di una Firenze ancora incontaminata dallo sfarzo e dal lusso tipici del tempo di Dante.
Il sommo poeta, dunque, non riuscì mai ad accettare il rinnovamento portato dall’ascesa di questa nuova classe di mercanti, artefici di una nuova economia e morale fiorentina. Egli piuttosto si mostra seriamente preoccupato per il futuro della sua città che, a causa di questa espansione mercantile e del suo successo economico a livello europeo, si prospetta tetro: «Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande, / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo ‘nferno tuo nome si spande».
Tali versi suggellano chiaramente la lontananza del pensiero dantesco dalla grandezza economica a cui Firenze stava andando incontro.
Giulia Venuti per Questione Civile
Sitografia
- Brocchieri V.B. (2021), La Firenze di Dante: commerci, finanza e arte, disponibile a: https://www.storicang.it/a/firenze-di-dante-commerci-finanza-e-arte_15105
- Gibilisco S. (2021), Dante e l’economia, disponibile a: https://www.narcisodautore.it/dante-e-leconomia-pensieri/
- Musilli C. (2021), Dantedì: Alighieri e l’economia, da Firenze alla Commedia, disponibile a: https://www.firstonline.info/dantedi-alighieri-e-leconomia-da-firenze-alla-commedia/