L’Antigone di Sofocle: la contesa per il diritto alla degna sepoltura di Polinice
La tragedia greca per chi non la conosce e – ancora di più – per chi l’ha già conosciuta, è un serbatoio inesauribile di riflessioni su problemi che, per complessità, profondità e astrattezza, spesso stentiamo ad affrontare.
Alcuni suoi versi, quasi più di ogni altro verso scritto in epoca moderna o antica osiamo dire, contengono provocazioni, risposte, massime valide ancora oggi e, ciò che è più interessante, sempre diverse.
Ad ogni rilettura ci si rende conto che è possibile scorgervi nuove risposte, nuove massime e nuove provocazioni. Ci si sorprende a riconoscere gli stessi passi cambiati, tanto quanto siamo cambiati noi che li interroghiamo, leggendoli. In uno di questi capolavori, l’Antigone di Sofocle, viene affrontato il delicatissimo tema dello scontro tra legge scritta e legge divina che si esplica nel titanico scontro tra Antigone e Creonte sulla questione della sepoltura di Polinice, il fratello di Antigone.
Tutto questo può essere riassunto nelle parole della nota giornalista, Rossana Rossanda:
“Ad alcune tragedie si torna, ma altre, come Antigone, sembrano tornare”
L’Antigone: di cosa parliamo?
Tra i massimi titoli mai prodotti in tragedia c’è l’Antigone di Sofocle. Il dramma è messo in scena nel 422 a.C. e conquista il primo posto alle Grandi Dionisie (le gare dedicate a Dioniso in cui si scontravano tre drammaturghi presentando al pubblico tre tragedie ed un dramma satiresco, un particolare tipo di commedia con ambientazione bucolica).
La vicenda è nota. Siamo nella parte del ciclo tebano dedicata alla terza generazione della stirpe di Edipo, quella che riguarda, cioè, i suoi figli. L’antefatto della vicenda narra che dopo la sua abdicazione, Eteocle e Polinice, i due figli maschi del leggendario re tebano, decidono di dividersi il regno, governando un anno ciascuno. Le cose si complicano quando Eteocle, concluso il suo anno di regno, rifiuta di cedere lo scettro al fratello costringendo quest’ultimo a muovere guerra contro la propria città e la propria famiglia.
Nello scontro muoiono entrambi e, mentre Eteocle è sepolto con tutti gli onori dovuti ad un re, a Polinice viene negato di ricevere sepoltura entro i confini della città poiché reo di aver mosso guerra contro Tebe e contro la propria stirpe.
Inizia qui l’azione scenica vera e propria che vede Antigone, sorella dei due, che proclama la decisione di seppellire Polinice osteggiando se necessario la volontà del nuovo sovrano, suo zio Creonte con il quale instaura uno scontro senza esclusioni di colpi che costituisce tutto il corpo della narrazione.
Diritto della pòlis e diritto del gènos: Antigone si scontra con Creonte sulla sepoltura
Ciò che dobbiamo tener presente più di tutto leggendo quest’opera è che Antigone e Creonte, seppur pieni di sfaccettature, sono due personaggi e non due persone. Risultano, quindi, le rappresentazioni simboliche di due poli opposti di etica, avversi, irriducibili e incomprensibili l’uno all’altra. Creonte è la ragion di stato, colui che dopo una catastrofe abbattutasi su una famiglia intera, quella di Edipo, si trova a ricoprire una carica di potere che quasi non avrebbe sperato di ricevere; sembra, dunque, abbracciarla senza alcuna via di mezzo, in modo totalizzante.
Egli applica le leggi scritte (ciò che in greco si chiamerebbe νόμος) così come sono scritte, senza guardare alle clausole o ai risvolti umani della vita reale, si richiama al diritto della πόλις (città) senza ascoltare ragioni: chi è nemico della città non merita sepoltura nella città.
Per questo forse è così sordo alle preghiere di Antigone che, invece, parla un altro linguaggio. Ella è la rappresentazione delle leggi non scritte, quelle che ascoltano e anzi trasportano la voce dell’umana pietà. Ella è la vicaria del diritto del γένος (stirpe) che potremmo ben tradurre come il diritto dei legami di sangue, che non sono scritti dagli uomini nelle loro πόλεις perché sono sancite dagli dèi ed inviolabili.
Ma γένος indica, in greco, anche la stirpe aristocratica e ciò non è secondario nella vicenda dal momento che Antigone non ne sta facendo una mera questione di principio.
Ella sta combattendo perché il nome di Polinice, di un uomo aristocratico, di un re venga ricordato e non si perda nella polvere, schiacciato da piccole ragioni come quelle di un burocrate qual è Creonte, e l’unico modo per farlo è tramite la sepoltura.
Il senso della sepoltura ieri e oggi: Antigone
L’anima di Polinice deve essere ricordata tra quelle dei grandi e merita di vivere in eterno fra quelle dei grandi che l’hanno preceduto. Per far ciò serviva il rito sacro in vigore tra i greci: il corpo del defunto doveva essere bruciato su una grande pira (quasi sacrificato in nome degli dèi), doveva essere visto e celebrato da tutta la comunità che poi l’avrebbe ricordato e poi, solo e soltanto tramite questo rito, poteva accedere ai Campi Elisi alla sede delle anime dei giusti.
Il contrasto sempiterno tra autorità e potere
La tragedia raccontata da Sofocle mette in luce chiaramente il secolare conflitto tra autorità e potere, in questo caso impersonato dalla figura di Creonte e calato a sua volta nel contrasto tra legge scritta e consuetudini religiose, cioè tra diritto positivo e diritto divino.
Per interi millenni, gli studiosi della filosofia, della politica e delle scienze sociali hanno esplorato e commentato la natura del potere. Il generale greco Pittacus di Mytilene (640-568 a.C.), affermò: “La misura di un uomo è ciò che fa con il potere”; altri come Lord Acton (1887), storico e politico britannico, sono convinti che il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente.
Molti studiosi hanno adottato la definizione sviluppata dal sociologo tedesco Max Weber, il quale afferma che “il potere è la capacità di esercitare la propria volontà sugli altri” (1922).
Effettivamente, il concetto di “potere” può avere connotazioni molto negative ed il termine è difficile da definire in senso lato. Ma è chiaro che il potere e l’autorità indicano due mezzi differenti per esternare la volontà individuale sugli altri consociati, a prescindere da quale sia l’organizzazione in riferimento.
Con il termine “potere” si intende la capacità personale di un individuo di influenzare gli altri a fare o non fare qualcosa e, in buona sostanza, deriva da fattori individuali esterni, come il carisma e lo status.
È un’abilità acquisita che deriva anche dalla conoscenza e dall’esperienza dei singoli. Il potere corrisponde alla facoltà di controllare le azioni, le decisioni e le prestazioni degli altri senza limiti intrinseci. Infatti, il potere non è gerarchico, esso ha delle estensioni in qualsiasi direzione. Inoltre, il contesto politico rappresenta storicamente un suo vettore peculiare.
Con il termine “autorità” invece si intende il diritto legale e formale di una persona di prendere decisioni, dare ordini e comandi agli altri per svolgere un compito specifico. È di natura gerarchica, scorre verso il basso, cioè delegato da superiore a subordinato. L’autorità è limitata e trova i suoi limiti intrinseci proprio nell’organizzazione.
Il contrasto tra Antigone e Creonte: ragion di stato e pietas
La diatriba scritta da Sofocle incarna il problema contemporaneo della legittimità del diritto positivo. Il contrasto tra Antigone e Creonte si riferisce infatti alla disputa tra leggi divine e leggi umane che si palesa dinnanzi al diritto universale dei defunti alla degna sepoltura.
Le leggi divine, difese da Antigone, corrispondono precisamente agli àgrapta nòmima (ἄγραπτα νόμιμα), che corrispondono al diritto consuetudinario religioso, ritenuto di origine divina, prerogativa del génos (γένος). Creonte invece difende le nòmoi, le leggi scritte della polis.
L’appello di Antigone al diritto religioso-divino alla degna sepoltura per il suo defunto Polinice, verte sulla convinzione che una legge umana non possa non rispettare una legge divina. Il divieto di sepoltura imposto da Creonte, dunque, consisterebbe in una palese deriva tirannica, basata sul principio del nòmos despotes, ovvero della legge sovrana assoluta.
Secondo Antigone, Creonte ha osato porre tali leggi al di sopra del divino in barba alla sacralità dei rituali per il rispetto dei defunti e della loro anima nell’aldilà ed in totale contrasto con il diritto alla giusta memoria e al sacro rispetto del corpo dei defunti.
La figura rivoluzionaria di Antigone
La posizione ribelle di Antigone non riguarda soltanto la sottomissione al nomos del re, ma anche il rispetto delle convenzioni sociali che vedevano la donna come sottomessa alla volontà dell’uomo.
L’opposizione di Antigone è fermamente condannata da Creonte non solo perché ci si oppone ad un suo ordine, ma anche perché a farlo è una donna.
Tant’è che le azioni di Antigone potrebbero anche essere considerate un atto di hybris, di tracotanza, che a sua volta risulterebbe in contrasto con il corpus consuetudinario religioso.
Infatti, la hybris è una “colpa” rilevata da un’azione che viola leggi divine ed è la causa per cui, anche a distanza di molti anni, i personaggi nelle tragedie o la loro discendenza sono portati a commettere crimini o subire azioni malvagie.
Questo è il risultato della nemesis (νέμεσις), che è la diretta “conseguenza” della hybris. Essa significa “vendetta degli dei”, “ira”, “sdegno”, e si riferisce alla punizione giustamente inflitta dagli dei a chi si era macchiato di hybris o ad un suo discendente.
Chiarimenti dottrinali: la differenza tra diritto di natura e diritto divino
L’Antigone di Sofocle viene da alcuni studiosi erroneamente considerata la prima vera matrice del diritto naturale.
Come già spiegato nell’articolo dedicato all’origine del diritto naturale (clicca qui), questi studiosi tendono ad accostare all’opera sofoclea un’erronea rilevanza gius-filosofica.
In realtà, nonostante venga considerata e citata come una delle prime testimonianze in favore del diritto naturale, la tragedia non riguarda affatto il diritto di natura, bensì il diritto alla degna sepoltura legato al corpus delle consuetudini religiose in vigore a quel tempo, poiché Antigone non si scaglia contro il decreto di Creonte in difesa di un ordine naturale (physis), ma si appella alle leggi religiose, che ciascuno porterebbe con sé nella coscienza e che sono citate nel testo come “leggi non scritte”.
Per questo motivo, risulta essere improprio, considerare queste ultime come precursore teorico del diritto naturale.
Alessio Costanzo Fedele e Noemi Ronci per Questione Civile
Bibliografia e sitografia
– Rosanna Lauriola, “Narraci, Musa, della donna che tanto ha errato per il mondo…” MC, Loescher, Torino, 2012;
– M. Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, Editoriale Jaca Book spa, Milano, 1986;
– Sarah B. Pomeroy, Donne in Atene e Roma, Einaudi, 1978; – Carlo Del Grande, Hybris: colpa e castigo nell’espressione poetica e letteraria degli scrittori della Grecia antica da Omero a Cleante, Napoli;
Immagine in evidenza: G. Diotti, Antigone condannata a morte da Creonte (1845)