Volevo Nascondermi: un film pluripremiato
Volevo nascondermi è un film del 2020 diretto da Giorgio Diritti, il quale narra della vita dell’artista Antonio Ligabue, interpretato dal noto attore Elio Germano. Le riprese si sono svolte a Gualtieri e Reggio Emilia, luoghi nel quale il pittore è cresciuto e ha maturato il suo talento artistico.
Presentato al festival del Cinema di Berlino, il film ha ottenuto l’Orso d’argento a Elio Germano come migliore attore protagonista. Ma i riconoscimenti non finiscono qui. Ai David di Donatello il film si aggiudica ben sette statuette, divenendo uno dei titoli più noti e apprezzati nel panorama cinematografico di quel periodo.
La riuscita del film è in gran parte legata alla straordinaria e credibile interpretazione di Elio Germano, il quale si conferma ancora una volta come attore trasformista e versatile. La sua performance non è basata sulle parole, quanto invece sulla mimica e la gestualità.
Volevo Nascondermi: Antonio Ligabue, un artista fragile
Il film parla della vita di Ligabue e della sua affermazione come artista. Il racconto, per spiegare l’infanzia difficile del protagonista, si serve di una serie di salti temporali ambientati nel contesto familiare e scolastico di Ligabue.
Nato a Zurigo nel 1899, Antonio non vive mai con la sua famiglia d’origine ma viene affidato ad una coppia di svizzeri-tedeschi senza figli. A causa della povertà della famiglia adottiva, l’artista vive una gioventù travagliata e problematica.
Antonio fin da bambino presenta anche dei problemi di salute molto seri. Egli è infatti affetto da rachitismo e presenta disturbi psicofisici, difficoltà che lo rendono spesso oggetto di vessazioni da parte di adulti e coetanei. Il suo carattere difficile e le sue frequenti crisi nervose lo portano ad essere espulso da scuola e, in seguito, ad essere ricoverato in un ospedale psichiatrico.
L’arte come salvezza
Gli unici elementi di conforto per Antonio sembrano essere la pittura e la scultura, prediligendo la rappresentazione degli animali esotici collocati in un paesaggio emiliano. Egli, infatti, all’età di vent’anni si stabilisce a Gualtieri in Emilia, dove viene chiamato “Al Tudesc”, con intento dispregiativo.
Non riuscendo ad inserirsi nella società e parlando poco l’italiano, Ligabue finisce per vivere come un reietto in una foresta, lontano dalla città e dalle persone. Nell’isolamento più totale, egli si trova in pieno contatto con la natura e può dipingere in pace e tranquillità. O almeno in parte, dato che spesso alcuni ragazzini del luogo si divertono a disturbare la sua quiete, incuriositi dalla sua grottesca figura.
La sua vita prende una piega inaspettata nel momento in cui il critico Mazzacurati scopre le sue opere e il suo enorme talento. A quel punto, Ligabue viene persuaso ad esibire i suoi lavori nelle mostre d’arte, facendosi sempre più conoscere e apprezzare come artista.
L’animalière come chiave di volta della realtà
Il tema del combattimento ferino che Ligabue ha ribadito con ossessiva insistenza, fino a prefigurare una sorta di propria animalière, diventa da questa prospettiva la chiave della sua vicenda umana e artistica. Il domestico e l’esotico, fusi in una “koinè” tematica, fanno da sfondo a questa disperata ricognizione di sé attraverso il sacrificio della bestia destinata a soccombere nella lotta, bestia in cui l’artista si riconosceva. Una vera e propria identificazione, avendo l’animale sempre rappresentato per Ligabue l’interlocutore che gli permetteva l’unica forma di conoscenza di cui era capace. L’animale gli dava certezza la di appartenere al mondo.
La posizione di Ligabue nelle correnti del ‘900
L’esegesi dell’opera di Ligabue parla immancabilmente di caso. Come a sottolineare che portando avanti il discorso, si arriva a un punto oltre cui nessuno è riuscito ad andare, soprattutto se ci affacciamo alle opere con criteri comparativi, quali il parallelismo con Van Gogh. Il confronto è solito per la comune condizione della pazzia, per i numerosi autoritratti nonché per certe consonanze espressive. Ma è necessario distinguere, data anche la collocazione nella storia dell’arte italiana del ‘900 di Ligabue. Van Gogh è stato un pittore strutturato culturalmente con un bagaglio culturale importante che, malgrado la vocazione ad andare controcorrente, soprattutto contro l’impressionismo, agisce in profondità su di lui. Per Van Gogh l’arte resta sempre il traguardo assoluto, il fine ultimo. La sua modernità si affida ancora ad una motivazione romantica, funzionale al perseguimento del sublime.
Al contrario, si riconosce in Ligabue il suo essere incolto e soprattutto la sua estraneità al mondo e al tempo. Non conosce i tormenti intellettuali, filo rosso dell’arte tra l’800 e il ‘900. E la sua forza è proprio in questo, nel non sapere. Ligabue si trova a occupare una posizione del tutto anomala rispetto al simbolismo, è orfano di qualsiasi modello di riferimento. La sua è la condizione di chi ha subito l’arte e la vita. Fare pittura per Ligabue è stato un mezzo di sostentamento, l’occasione per risolvere varie scadenze e con l’avvento della notorietà, qualche vizio: le motociclette.
L’Icona e il Ritratto
Se è vero che ogni quadro di Ligabue è un autoritratto potenziale, riconoscendo nelle sue opere un’icona in cui si riconosce la storia, la sua vicenda personale, l’introspezione psicologica, Giuliano Serafini, critico d’arte del nostro secolo, si rifà a due dipinti del 1950 e del 1943. Il primo, traversata della Siberia, mostra una slitta trainata da tre cavalli e assalita da un branco di Lupi in una landa innevata. Nonostante il dinamismo dell’opera, si nota che tutta la tensione è concentrata nel dettaglio del bambino in fasce azzannato dalla belva, strappato dalle braccia della madre.
Come vediamo nel film, Ligabue, figlio di due madri, che il caso ha voluto avessero lo stesso nome, entrambe amate e poi odiate per essere stato da entrambe abbandonato.
Nel secondo dipinto, un vero e proprio autoritratto, l’artista si raffigura di profilo sullo sfondo di una grata dipinta di rosso, in una inquadratura quasi numismatica. Ostenta, grazie alla scollatura della camicia, l’abnorme pomo d’Adamo e lo sguardo è rivolto verso l’osservatore come a studiarne la reazione di fronte a questo dettaglio, come se ricercasse del compiacimento. In sé l’opera ha un che di clinico.
Immaginario di emarginazione
La storia delle due famiglie di Ligabue, i Laccabue e i Gobel, è stata una storia di emigrazione, storia di famiglie che hanno subito dure condizioni di precarietà. Lo stesso Antonio visse i suoi giorni come un apolide, senza riuscire mai a integrarsi nel paese di origine e nell’Italia padana. Ed è da questo che l’opera di Ligabue trova le sue principali ragioni espressive e linguistiche: sempre ibridata nei motivi tematici, nelle evocazioni fantastiche. Già dalle prime opere, l’immaginario di Ligabue risente di questa esperienza per il quale la dislocazione diventa una norma. Norma a cui non può sottrarsi e non avrebbe avuto la possibilità di farlo, facendo della pittura la traduzione del suo modo di percepire la realtà.
Una vita da “invisibile”
La scena iniziale del film vede il protagonista avvolto da una coperta mentre viene sottoposto ad una visita medica. Per tutta la sequenza Antonio nasconde la sua figura, come per rifugiarsi. L’unica cosa che si vede di lui sono i suoi occhi, che osservano da uno spiraglio della coperta. Lo spettatore vede attraverso gli occhi dell’artista e prova empatia per lui, in quanto per l’intera sequenza l’inquadratura è in soggettiva, cioè coincide con ciò che vede Ligabue.
Questa sua tendenza a nascondersi emerge a causa del suo sentirsi spesso incompreso e diverso. Sono stati d’animo emersi fin da bambino, da quando viene deriso e umiliato dai compagni di classe, fino a quando viene etichettato dai medici come “matto”. È il suo sentirsi un emarginato a portarlo alla decisione di vivere in un bosco nella più completa solitudine.
Ma se da una parte egli preferisce scomparire e stare ai margini della società, dall’altro il film mostra come il suo talento d’artista non può fare altro che metterlo in luce e rendersi “visibile”. L’arte rappresenta il suo unico canale comunicativo, un modo di imporsi e acquisire sicurezza sulle proprie capacità. È proprio nei momenti in cui le persone danno un giudizio, non sempre positivo, sulle sue opere che Ligabue esce dal suo guscio affermando con fierezza: “Io sono un artista”.
Camilla Miolato e Giordano Perchiazzi per Questione Civile
Bibliografia
Studi di Giuliano Serafini su Antonio Ligabue