Gli schiavi, un ingranaggio fondamentale dello Stato romano
Quella degli schiavi nel mondo antico era una condizione sociale non solo accettata senza particolari riguardi di tipo moralistico, ma rappresentava un ingranaggio fondamentale dell’economia.
Da questo punto di vista Roma molto probabilmente fu, tra tutti i popoli dell’antichità, quello che più di tutti fece ricorso a questo tipo di manodopera nella costruzione del suo grande impero.
In questo articolo ci limiteremo a delineare un quadro, necessariamente riassuntivo, dell’impatto che ebbe lo sfruttamento della manodopera schiavile nello sviluppo di Roma, prendendo in esame la questione sociale a partire dal III secolo a.C.
Il fenomeno si è sviluppato come una medaglia, di cui una faccia mostra gli effettivi benefici dal punto di vista economico, l’altra rivela invece le numerose problematiche di una questione mai davvero risolta, che spesso portò a momenti di grande pericolo sociale e politico.
Schiavi si diventa…
Prima di analizzare la condizione sociale dello schiavo nel mondo romano è utile fare una piccola digressione per comprendere come si diventava schiavi nell’antica Roma.
La prima e più importante fonte di approvvigionamento era sicuramente la guerra; infatti i prigionieri rappresentavano una parte importantissima del bottino e non a caso i mercanti di schiavi si muovevano numerosi a seguito delle legioni romane.
Si stimano circa 300 mila prigionieri venduti come schiavi durante le Guerre Puniche, 50 mila dalla conquista della città di Corinto nel 146 a.C., 150 mila furono probabilmente catturati da Caio Mario tra i Cimbri e Teutoni e addirittura c’è chi ha ipotizzato un milione di prigionieri provenienti dalle campagne galliche di Cesare.
Numeri talvolta iperbolici e altre volte solo ipotetici, ma che sicuramente servono a rendere l’idea del fenomeno. Gli schiavi erano poi comprati all’asta o tramite contrattazione privata in alcune piazze specializzate, la più famosa delle quali in età repubblicana fu il porto franco di Delo. Successivamente venivano trasportati in numerosi mercati d’acquisto, come Pozzuoli o Roma per limitarci ai principali sul solo suolo italico.
Accanto alla schiavitù legata alla sconfitta bellica vi era quella legata alla povertà: chi fosse stato impossibilitato a pagare il proprio creditore poteva essere venduto come schiavo per saldare il debito.
Contemporaneamente si poteva divenire schiavi a seguito di incursioni piratesche o a causa della sempre diffusa esposizione dei neonati.
…o schiavi si nasce?
Ma vi era anche un altro modo meno, per così dire, traumatico e più “naturale” che rendeva possibile questa condizione sociale: i figli nati da schiavi. La loro riproduzione era sempre stata favorita dai padroni, in quanto rappresentava un modo semplice e “a costo zero” per aumentare il proprio capitale. Inoltre bisogna ricordare che gli schiavi che nascevano tra le mura domestiche, i cosiddetti vernae, erano essi stessi proprietà del dominus (padrone). Per nascere schiavi il prerequisito era che la madre fosse a sua volta una schiava; non importava la condizione sociale del padre, che spesso era lo stesso dominus. I padroni erano, inoltre, soliti commerciare gli schiavi che, in un certo senso, “allevavano” nella propria casa. Famoso è il caso letterario di Trimalcione del famoso romanzo di Petronio, il Satyricon, che si era arricchito proprio tramite questa attività.
La condizione giuridica e sociale degli schiavi
Analizziamo adesso molto rapidamente la condizione giuridica e sociale degli schiavi nella società romana.
Per prima cosa occorre sottolineare che questi non avevano alcuna dignità giuridica: questo significava non solo che erano completamente emarginati dalla vita politica, ma soprattutto che non avevano alcun diritto di possedere alcunché. Inoltre l’emarginazione giuridica significava che non potevano avere neanche una famiglia, non essendo il matrimonio tra schiavi riconosciuto legalmente.
Le mansioni degli schiavi potevano essere di ogni tipo e natura e non sempre essere schiavo poteva significare occuparsi di mansioni faticose o pericolose; spesso i compiti assegnati rispecchiavano le potenzialità fisiche o intellettuali della persona.
Infatti gli schiavi molto colti, soprattutto quelli greci, potevano essere impiegati come precettori per i figli dei domini, un caso famoso è quello dello storico Plutarco. Gli schiavi poi, molto spesso, erano impiegati anche come attori, architetti, potevano praticare diverse attività intellettuali o atletiche. All’interno della casa potevano occuparsi di attività di accoglienza e servizio come “maggiordomi”, coppieri e camerieri durante i conviti dei padroni.
Venivano però impiegati largamente anche per compiti molto più umili e pericolosi, ovvero come prostitute, minatori, braccianti nei latifondi e ogni tipo di mansione operaia, naturalmente senza alcun tipo di tutela sociale e soprattutto senza alcuna norma di sicurezza. Vi erano, infine, gli schiavi più “famosi” del mondo romano: i gladiatori.
L’espansionismo romano e le conseguenze sul lavoro schiavile
Benché la schiavitù nel mondo romano fosse diffusa sin dai momenti più antichi della sua storia, fu con il III e II secolo a.C., che i grandi possidenti e le élite romane e italiche vennero in possesso di grandissimi “contingenti” di schiavi da utilizzare in ogni attività economica. Questo fu reso possibile soprattutto dalla politica espansionistica di quei secoli.
Infatti, da un lato la conquista territoriale mise a disposizione centinaia di migliaia di persone sottomesse che furono vendute come schiavi, dall’altro durante le Guerre Puniche la classe dei piccoli possidenti terrieri, il vero motore economico della Roma fino ad allora, era stata decimata ed era finita in miseria. Conseguenza fu che la piccola proprietà sparì, confluendo nei latifondi di pochi, ma ricchissimi proprietari terrieri. Tutto ciò contribuì senza dubbio a peggiorare sensibilmente la già precaria situazione dei lavoratori di condizione servile.
Gli schiavi si ribellano: la prima e la seconda guerra servile
Le condizioni spesso disumane in cui versavano gli schiavi dell’epoca tardo repubblicana portò questa classe a ribellarsi più di una volta; in particolare si ricordano tre scontri sanguinosi passati alla storia con la denominazione di guerre servili.
Le prime due scoppiarono in Sicilia a causa della sempre più dura condizione cui erano sottoposti i braccianti nei vasti latifondi, spesso tenuti in catene o marchiati a fuoco.
La prima rivolta (135-132 a.C.) pare abbia contato circa 200 mila uomini che si sollevarono, conquistarono città e addirittura fondarono un “regno degli schiavi” con tanto di moneta e di sovrano, tale Eunus, che conquistò Enna e si ribattezzò Antioco.
Questa prima rivolta fu però soffocata nel sangue, così come la successiva avvenuta solo poco più di una generazione più tardi (102-98 a.C.): gli schiavi ribelli furono catturati e portati a Roma, dove vennero esemplarmente puniti nel Circo dati in pasto alle belve. Queste due rivolte servili sono raccontate, anche se non sempre in maniera fedele e realistica, lo storico Diodoro Siculo.
La terza guerra servile
La terza e senza dubbio più famosa di queste guerre fu però la terza. Scoppiò nel 73 a.C. e fu guidata da un ex soldato romano divenuto schiavo e venduto come gladiatore: Spartaco. Questi, alla guida di 70 compagni gladiatori, fuggì dalla più grande scuola gladiatoria esistente, quella di Capua, e diede vita a una grande sollevazione che coinvolse le classi sociali più umili dello stato romano.
Questo esercito, che si ingrandiva giorno dopo giorno, sbaragliò numerosi contingenti militari inviati dal Senato. Ci vollero ben dieci legioni capitanate da Crasso, investito per l’occasione di poteri speciali, per domare questa ribellione durata ben tre anni. I 6000 compagni di Spartaco sopravvissuti furono uccisi e crocifissi lungo la Via Appia come monito contro eventuali altre rivolte. Uno degli atti più eclatanti e crudeli di tutta la storia romana che ci dà la misura di quanto questa guerra avesse fatto tremare l’organizzazione dello Stato romano.
Conclusione: la non-storia dei vinti
La storiografia antica non dà notizia riguardo la sepoltura di Spartaco, tanto che è possibile ipotizzare anche che non fu mai sepolto. Alcuni tra gli studiosi hanno pensato che il corpo fu sottratto per impedire che venisse crocifisso in maniera umiliante come i suoi compagni, per mantenere vivo il ricordo e il mito. Secondo altri, al contrario, potrebbe essere stato celato per evitare che il sepolcro del gladiatore potesse diventare meta di pellegrinaggi di eventuali altri cospiratori.
La storia, inoltre, racconta che per secoli non vi furono più rivolte, almeno non paragonabili a quelle delle guerre servili. Però, come sempre accade, non potendo ricostruire la storia dei vinti, non possiamo neanche escludere che il mito di Spartaco e, in generale, della possibilità di riscatto dalla schiavitù, sia sopravvissuto tra molti degli schiavi del mondo romano.
Carmine De Mizio per Questione Civile
Bibliografia
J. Andreau, R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Bologna 2014.
L. Canfora, E. Incelli, C. Parisi Presicce, O. Rossini, L. Spagnuolo, Spartaco. Schiavi e padroni a Roma, in Archeologia Viva luglio/agosto 2017, pp. 8-19
Diodoro Siculo, Βιβλιοθήκη Ἱστορική, libro XXXIV.
A. Momigliano, Manuale di storia romana (a cura di A. Mastrocinque), Torino 2011
C. Pavolini, La vita quotidiana a Ostia, Roma-Bari 1986