Trauma da guerra: il fenomeno dello shell shock

Tra trincee e incidenti: 70 anni di trauma

La Prima guerra mondiale fu un evento tragico, che sconvolse la vita quotidiana delle persone che l’hanno vissuta. Da allora nulla fu più lo stesso. La Grande Guerra (clicca qui per approfondire) segnò l’avvio di una nuova era di guerre con cambiamenti nel modo e nelle armi usate per combattere, e con la presenza delle celebri trincee.

Ma ancor di più, la Grande Guerra segnò coloro che erano stati impegnati in prima linea; essa diede il via ad una scia di eventi, e di guerre, di cui ancora oggi portiamo i segni.

“Shell shock: guerra e trauma”
-N. 2
Questo è il secondo numero della Rubrica di Rivista dal titolo “Shell shock: guerra e trauma”. La Rubrica vede la collaborazione tra le Aree di Scienze Umane, Sociologia, Lettere, Cinema, Storia Moderna e Contemporanea, Arte e Archeologia

La Prima guerra mondiale e il senso del dovere verso la patria

In quegli anni, vigeva l’obbligo di leva obbligatoria per cui scattata la dichiarazione di guerra, i giovani dei paesi coinvolti non poterono fare a meno di fare le valigie, salutare i propri cari e partire. Non potremmo sapere cosa pensarono questi soldati, giovani e no, durante il loro viaggio.

Possiamo ipotizzare i discorsi sui mezzi di trasporto, le speranze che la guerra finisse nel più breve tempo possibile, la paura, e per alcuni la determinazione nel portare la propria Patria alla vittoria. Gli stati d’animo dei soldati erano certamente diversi tra loro, ma allo stesso tempo nel corso della guerra quell’esperienza accomunò gli uomini coinvolti.
Ciò che questi uomini trovarono fu sicuramente peggio di quello che immaginavano: si trovarono con fucili, armi, bombe tra le mani.

Ma soprattutto, si ritrovarono a dover combattere nelle trincee con scarse condizioni igieniche, sotto condizioni meteorologiche incerte e in un perenne stato fisico di allerta e tensione. Inoltre, per i soldati era impossibile distinguere tra notte e giorno, situazione che peggiorava il loro stato psichico.
Ma c’era ancora di peggio: la costante esposizione a bombe, esplosioni e rumori che vi erano sul campo di battaglia. I soldati si ritrovavano spesso esposti a stimoli uditivi di questo tipo, ma anche a stimoli visivi; come compagni, o sé stessi, feriti e mutilati, vista di sangue, compagni che morivano davanti ai loro occhi e, naturalmente, il recupero quando possibile dei loro corpi.

Questi eventi non poterono non lasciare una traccia anche dopo la fine della Grande Guerra. Infatti, al ritorno dal fronte fu sempre più comune nei reduci di guerra una sorta di isterismo, così denominato proprio perché ricordava i sintomi della celebre malattia di inizio ‘800. I soldati presentavano incubi, flashback, attacchi di panico, ansia e forte aggressività.

Lo shell shock e il trauma da guerra

La prima reazione della maggior parte degli eserciti a cui questi soldati appartenevano, tra cui l’Italia, fu un rifiuto del fenomeno. Questi sintomi venivano attribuiti ad una debolezza, una codardia del soldato che non veniva visto come abbastanza coraggioso da affrontare la Guerra. Naturalmente, questo creava anche dei sentimenti di colpa e di vergogna nelle vittime (un po’ meno dirette), della guerra da parte di sé stessi, delle persone che gli stavano intorno e del loro paese.
Sfortunatamente, questa visione è solo in parte adesso superata ed esiste ancora una forte cultura del soldato coraggioso e pronto a tutto.

Purtroppo, questo contesto non era certo utile ai veterani e alcuni di loro iniziarono a manifestare sintomi più gravi come forti aggressività verso sé stessi e verso gli altri, fino a vederli coinvolti in risse, omicidi o tentativi di suicidio. A questo punto, perciò, alcuni di essi iniziarono a venire ricoverati in ospedali psichiatrici in cui le prime cure consistettero in quelle già sperimentate per l’isteria.

Questa condizione che colpiva i reduci delle trincee fu chiamata in diversi modi: “nevrosi da guerra”, Combat Stress Reaction o Battle Fatigue.
Dallo studio di questi ormai pazienti, lo psicologo Charles Myers coniò ufficialmente il termine Shell Shock (tradotto letteralmente “shock da combattimento”), che comparve per la prima volta nel 1915 sulla celebre rivista The Lancet.

Myers notò un pattern ripetitivo di sintomi in questi pazienti che dava origine a questa sindrome. In conformità alla visione medica dell’epoca, l’idea di Myers era che i rumori causati in battaglia dai bombardamenti e il rilascio di sostanze tossiche come il monossido di carbonio, avvelenassero i soldati producendo dei danni cerebrali, distruggendo i loro neuroni e che a loro volta davano origine ai sintomi.

Il trauma della vergogna

La sua visione era ovviamente molto medica e neurologica. Infatti, il disturbo non era stato associato all’evento traumatico a cui i soldati erano stati esposti, bensì a conseguenze neurologiche causate dal contesto di guerra. Seguendo questa visione, il trattamento ideale fu indentificato nell’elettroshock.
Questa terapia fu solo l’ennesimo trauma per i soldati che si ritrovarono ad avere effetti collaterali molto invalidanti sulla loro vita. Alcuni non si ripresero mai più. Altri, sebbene non esposti all’elettroshock, non tornarono comunque alla loro vita quotidiana e rimasero in ospedale psichiatrico fino alla fine della loro vita. Ciò che si legge tra le righe è una forte indifferenza e deumanizzazione verso queste persone, che si erano trovati a vivere una situazione più grande di loro.

È interessante anche accennare al fatto che la maggior parte di coloro che furono colpiti da shell shock erano semplici soldati, piuttosto che generali e ufficiali. Tornando al contesto di quegli anni, molti giovani erano partiti per quella guerra per ideali più grandi, completamente ignari di quello che li attendeva.
A seguito dello shell shock, non solo i soldati furono deumanizzati, ma si ritrovarono anche a combattere con pregiudizi e vergogne di chi li considerava “gli scemi di guerra”, non coraggiosi e vigliacchi. Naturalmente, tutti questi elementi costruirono una catena che non faceva altro che alimentare il difficile stato psicologico in cui essi si trovavano.
Purtroppo, conosciamo molto bene la storia e sappiamo che la Prima guerra mondiale fu solo la prima di una serie di eventi sanguinosi e catastrofici. I modi di combattere sono cambiati, e se vogliamo, anche peggiorati da allora. Ma il fenomeno del trauma da guerra sembra un filo conduttore.

Nascita del disturbo post-traumatico

Infatti, la sintomatologia denominata shell shock, emersa nei soldati dell’epoca andò via via diffondendosi; in breve iniziò a presentarsi anche nei soldati della Seconda guerra mondiale e di guerre “minori”, inclusa la guerra di Corea e la guerra del Vietnam.

Solo alcuni anni dopo fu riconosciuto che anche persone lontane dai campi di battaglia sperimentarono i sintomi dello shell shock aprendo le porte al riconoscimento del trauma, nella genesi di questa sindrome.


Tuttavia, ci vollero ancora molti anni prima che la psicologia riconoscesse e mettesse a punto nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali) il disturbo da stress-post traumatico (PTSD – post traumatic stress disorder).  A seguito della guerra del Vietnam, nel 1972, lo psichiatra Shaton parlò di “Sindrome post-Vietnam”, l’ennesimo nome dato ad una condizione ormai chiara. È solo nella terza versione del DSM uscita nel 1980 che si parla per la prima volta di disturbo da stress post traumatico e non più di trauma da guerra o shell shock.


Durante gli anni precedenti, molti studiosi si erano interessati al fenomeno e si erano resi conto di come esso non si circoscrivesse solo ad eventi di guerra. Inoltre, in quegli anni vi era la convinzione che questo genere di disturbi colpisse solo le persone di rango sociale basso. Ma verso la fine degli anni ’70 successe un evento che mise in discussione questa credenza e che contribuì a riconoscere il disturbo post-traumatico come una sindrome. Ci fu infatti un incidente in treno, mezzo in quegli anni frequentato da persone molto ricche che svilupparono sintomi come quelli dei soldati tornati dalle trincee.

Lo shell shock nella cultura di massa

Inoltre, ricerche successive ritrovarono scritti di filosofi e pensatori che avevano vissuto esperienze simili. Ad esempio, si conosce uno scritto di Pascal in cui egli stesso afferma di aver sperimentato i sintomi del disturbo post traumatico a seguito di un incidente in carrozza di cui era stato vittima.
Lo shell shock e la sua diffusione ha causato un enorme interesse anche nella cultura di massa; inoltre è stato trattato in diversi film e serie televisive. Basti pensare al celebre film American Sniper in cui si ripercorre la vita, e il disturbo, di un soldato tornato dal fronte dall’Iraq. O ancora, il film Rambo ha alcuni elementi di PTSD, senza dimenticare il celebre Taxi driver di Martin Scorsese.

Il disturbo post-traumatico è stato anche una parte importante della serie televisiva Peaky Blinders ambientata negli anni successivi alla Prima guerra mondiale e in cui sono evidenti i sintomi di intrusione e di aggressività che i protagonisti si trovano a vivere a seguito dell’esperienza di guerra, nonché l’uso di oppio per sopprimere questi ricordi, anche questa una strategia comune all’epoca tra i veterani di guerra.

Il trauma oggi

Ad oggi, il disturbo post traumatico si è ampiamente evoluto grazie al lavoro di ricerca dei professionisti del settore, e si è guadagnato un capitolo tutto suo nell’ultima versione del DSM (DSM-5), uscito nel 2013. Ciò comprende la distinzione di vari tipi di PTSD, differenziati sulla base della durata dei sintomi.
Inoltre, è chiaro come qualsiasi situazione che ci pone in condizione di temere per la nostra vita o per quella degli altri può essere causa di disturbo post-traumatico; esso, inoltre, non è più solo circoscritto alla guerra o ad eventi catastrofici.
Gli eventi che ci siamo ritrovati a vivere in questo secolo hanno spesso portato con sé sintomi post-traumatici; basti pensare agli attentati terroristici o agli eventi catastrofici ambientali, come il terremoto de L’Aquila del 2009.


Anche la stessa pandemia da COVID-19 che abbiamo appena vissuto ha innescato in alcuni disturbi di tipo post-traumatico, soprattutto tra il personale sanitario coinvolto direttamente nell’emergenza, ma anche di chi ha vissuto l’esperienza di ricovero nei reparti COVID.
Fortunatamente, anche le terapie per il disturbo post-traumatico hanno subito una forte evoluzione verso un’ottica maggiormente psicologica e di presa di cura delle persone.


Tra le nuove terapie, un posto di eccellenza è dato all’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). Si tratta di una terapia non invasiva che permette la rielaborazione di ricordi ed eventi traumatici innescando precisi movimenti oculari. In particolare, si stimolano determinati movimenti (apertura/chiusura o ritmici) al fine di favorire una migliore comunicazione tra gli emisferi destro e sinistro. L’obiettivo è una riorganizzazione delle connessioni e di conseguenza dei pensieri legati al trauma.

Chiara Manna per Questione Civile

Sitografia

www.formazionecontinuainpsicologia.it

www.stateofmind.it/www.istitutobeck.com/wp-content/uploads/2019/01/TESI-PTSD-VITO-LUPO.pdf

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