La filologia d’autore e la sua condicio sine qua non. I precursori e gli esempi
La filologia d’autore si distingue da quella della copia perché prende in esame le varianti inserite dall’autore sul manoscritto o sulla stampa. Oggetto di studio della filologia d’autore è l’iter elaborativo di un testo di cui abbiamo l’autografo, con le sue correzioni, e le sue diverse redazioni. Affianca la filologia d’autore la critica delle varianti, la quale si occupa di interpretare ciò che la filologia rappresenta, il testo con le sue correzioni. Il testo viene dunque considerato come un organismo in movimento e frutto di una ricerca. Il testo è quindi l’insieme del succedersi delle “approssimazioni al valore”, in dipendenza dal rapporto dei testi che lo hanno preceduto.
Imprescindibile per l’applicazione della filologia d’autore è dunque la ricezione di un testo autografo –ovvero un testo vergato da mano autoriale. Tale presupposto infatti veniva a mancare quando si trattava di opere trasmesse verticalmente, modalità di trasmissione propria delle opere classiche e medievali.
La filologia d’autore e i Rerum vulgarium fragmenta
Termine post quem per la nostra letteratura è il Canzoniere petrarchesco, di cui possediamo l’autografo e il noto Codice degli Abbozzi. Quest’ultimo, noto anche come Vaticano Latino 3196, conserva varie redazioni di alcuni componimenti. È importante non solo in quanto testimonianza di scartafaccio autoriale; denota, infatti, anche una nuova consapevolezza del fare autoriale. Siamo di fronte all’autore che conserva le proprie carte.
Vi è stato chi ha ipotizzato l’esistenza di variantistica autoriale anche in testi della tradizione classica, ritenendo che alcune varianti considerate di tradizione, potessero essere autografe. Dal medioevo in poi si avrà un aumento progressivo di materiali autografi; gli autori medievali si correggevano e allo stesso tempo facevano circolare differenti versioni delle proprie opere. Ma sarà dopo l’avvento della stampa che diventeranno sempre più frequenti i casi di varianti d’autore. Basti pensare a Machiavelli, Guicciardini, Bembo, Tasso e nei secoli a seguire i proverbiali casi di Foscolo, Parini, Manzoni, Leopardi, Ungaretti, Gadda.
Storia della filologia d’autore e precursori
Abbiamo già detto come termine chiave per la nostra letteratura sia l’opera petrarchesca, è infatti su quella che avremo le prime applicazioni della filologia d’autore. Vi sono letterati e intellettuali che possono a buon diritto essere definiti precursori della critica delle varianti, tra questi Pietro Bembo. Ovviamente le finalità dell’applicazione filologica su quelli che sarebbero stati definiti scartafacci non erano le medesime che avrebbero mosso Debenedetti, Contini, De Robertis o Isella.
Ciò che mosse Bembo all’approccio alle carte dell’oggi Codice degli Abbozzi fu la stesura delle sue Prose, nelle quali Petrarca assurge a modello della lingua poetica. Bembo sostiene che l’eccellenza del Petrarca sia data dal ritorno sui propri versi, i quali, incorrendo in continui “mutamenti”, fanno ottenere soavità di suono. Il fine, quindi, diviene perseguibile mediante il principio di imitazione, sul quale si incentra l’opera bembiana; Petrarca e il suo labor limae fungono da esempio per chi, leggendo le Prose, si approccerà alla versificazione.
Bembo fa dunque pronunciare all’interno del suo dialogo a Giuliano delle varianti petrarchesche per finalità didattiche. Anche Daniello spinge il suo lettore a percepire l’acutezza dell’Aretino proprio dal suo lavorio correttorio e da ciò trarre spunto per migliorare le proprie composizioni. Allo stesso modo il Beccadelli nella sua Vita del Petrarca presenta una vasta scelta di varianti, in parte tratte dal Vat. Lat. 3196.
Federico Ubaldini e le Rime di M. Francesco Petrarca come estratte da un suo originale
È il 1642 quando a Roma vedono la luce le Rime di M. Francesco Petrarca come estratte da un suo originale. Si tratta di un’opera realizzata da Federico Ubaldini. L’Ubaldini, senese conte di Urbania, esperto conoscitore della lingua antica alla corte dei Barberini, realizza l’edizione petrarchesca rivolgendosi alle carte dell’attuale Vat. Lat. 3196. L’opera è singolare perché “anticipa” quelle che oggi vengono riconosciute come edizioni critiche.
Sebbene in realtà il primo dei filologi a rappresentare varianti d’autore sia stato Jacopo Corbinelli, primo editori dei Ricordi guicciardiniani, seppur con altre modalità[1]. Ubaldini riproduce, infatti, in stampa, quasi come fosse un fac-simile, le carte del cosiddetto Codice degli Abbozzi, utilizzando variazioni di carattere per mostrare i “mutamenti”. Dovremo aspettare l’opera di Karl Appel, negli anni 90 del 1800 per avere la ripresa di tali impostazioni.
La pubblicazione dell’opera si inserisce in un processo di “tessitura” di lodi alla famiglia Barberini. Assieme alle carte del Petrarca verrà pubblicato il Trattato delle virtù morali, attribuito erroneamente a Roberto d’Angiò, e il Tesoretto di Brunetto Latini. Questo procedimento ben si inquadra nella politica culturale della corte barberiniana, in questo caso vi sarebbe l’intento di celebrare le origini toscane della famiglia Barberini.
Già due anni prima Ubaldini aveva curato l’edizione dei Documenti d’amore di Francesco Barberini. Brunetto si configurava come il maestro della letteratura toscana, Roberto d’Angiò come cultore della poesia di Francesco e Petrarca? Petrarca, oltre a essere una delle “tre corone”, delle “tre fontane” viene a legarsi alla famiglia Barberini tramite la moglie di Taddeo, Anna Colonna. I Colonna, di fatti, furono mecenati del Petrarca.
Ubaldini e la lettera al «cortesissimo lettore»
Nella lettera al lettore l’Ubaldini espone le motivazioni letterarie che l’hanno spinto all’impresa, illustrando la storia del manoscritto e dei criteri usati per l’edizione. Innanzitutto, esprime quanto la fama di Petrarca e della sua poesia rendano preziose le sue carte. L’arte della correzione gli sarebbe derivata dal costume degli autori antichi, sebbene in questa sia rimasto insuperato. Sostiene, poi, che l’importanza del lavorio petrarchesco risieda nell’esempio che questo possa rappresentare per i posteri: chiunque avrebbe potuto operare allo stesso modo. Il fine didattico, quindi, anche qui, avrebbe spinto l’Ubaldini a portare alla luce ciò che Petrarca avrebbe condannato all’oblio. Ubaldini scrive anche sulla natura delle carte che compongono il manoscritto petrarchesco e della loro provenienza, sostenendone l’autografia. Infine, spiega i criteri seguiti per la realizzazione della sua edizione e quali siano accorgimenti tipografici adottati.
Cesare Segre conferirà all’Ubaldini il ruolo di precursore della critica genetica –resta, infatti, in un’ottica ancora francese-. L’Ubaldini parlerà di “embrione”, riferendosi alle carte petrarchesche, quasi anticipando il concetto di momento germinativo che sarà poi alla base del concetto di critica genetica.
L’opera ubaldiniana si configurerà anche come modello per i posteri e l’utilizzo di vari espedienti tipografici riuscirà a rendere la stratigrafia dell’autografo. Sebbene non possa considerarsi un lavoro condotto secondo le modalità proprie della moderna critica delle varianti, sarebbe improprio connotarlo come anticipatore della critica genetica. Il lavoro dell’Ubaldini va oltre a una mera rappresentazione diplomatica e sincronica delle varianti; il commento, infatti, denota una vera e propria operazione critica.
Rosita Castelluzzo per Questione Civile
Bibliografia e sitografia:
- D. Isella, Le carte mescolate vecchie e nuove, Einaudi, Torino, 2009.
- P. Italia-G. Raboni, Che cos’è la filologia d’autore, Carrocci Editore, Bussole, Roma, 2010.
- P. Italia, Alle origini della filologia d’autore in (a cura di) C. Caruso-E. Russo, La filologia in Italia nel Rinascimento, Biblioteca dell’Arcadia, Roma, 2018, 379-398
[1] P. Italia, Alle origini della filologia d’autore in (a cura di) C. Caruso-E. Russo, La filologia in Italia nel Rinascimento, Biblioteca dell’Arcadia, Roma, 2018, 379-398.