La logica perversa del cibo in Underworld di Don DeLillo
Cibo e spazzatura: un’assimilazione perversa. Nella logica culturale del tardocapitalismo, la merce è divenuta antimerce: il nuovo motore dell’economia non è più un oggetto funzionale, una materia dotata di un’utilità, bensì il suo contrario.
L’individuo non deve approcciarsi a cose utili ma a scarti, a oggetti contraddistinti da una longevità breve e difettosi sin dalla loro creazione, in modo tale da accelerare il circolo dell’acquisto e del consumo.
Don DeLillo, probabilmente il più celebre e importante degli autori statunitensi in vita, è riuscito a tratteggiare questa perversa strategia commerciale all’interno delle sue opere con un’eloquenza a dir poco urticante.
Nel suo capolavoro, Underworld, il cibo assurge a tematica principale insieme alla spazzatura: in questo prospetto binomiale – merce da una parte, antimerce dall’altra – i confini tra le due materie si assottigliano, e l’alimento funzionale viene spesso affiancato dallo scarto antifunzionale. Il cibo, nelle intenzioni del tardocapitalismo, non è più fattore di sostenibilità.
Basti pensare all’impero del fast-food, del cibo-spazzatura il cui intento è l’esatto contrario di ciò che si aspetterebbe: alimentare la fame, piuttosto che saziarla. Leggiamo alcuni estratti di Underworld per assistere da vicino al paradosso del cibo come antimerce.
Dove c’è cibo, c’è anche spazzatura
Il cibo è l’espressione oggettuale massima del capitalismo, la merce per eccellenza, ciò che viene consumato per puro soddisfacimento. L’atto del nutrirsi richiama quel senso di benessere e godimento tipico delle ragioni capitalistiche, è la proiezione tangibile e visibile delle loro strategie commerciali: il cibo è una merce del tutto incentrata sul proprio valore d’uso, sulla sua capacità di essere utilizzata per uno scopo e scartata subito dopo. In Underworld, però, qualcosa va fuori posto, e il meccanismo si inceppa.
La commistione sempre più indistinta fra merce e antimerce corrompe anche il cibo, il quale perde per tutto il corso delle vicende la sua natura di materia funzionale, trasformandosi piuttosto nell’ennesimo scarto. Ogni volta che si cita un pasto o un alimento, infatti, nella stessa porzione testuale DeLillo inserisce oculatamente anche un riferimento ai rifiuti, alle scorie, soprattutto alle feci e ad altri detriti fisiologici – in quanto antimerce per antonomasia. Durante uno dei soliti pasti del protagonista Nick Shay, i suoi colleghi di lavoro non possono non esimersi dal raccontargli l’improbabile episodio di una nave colma di escrementi che si aggira per l’oceano alla ricerca di un porto:
Brian Glassic said: “I hear they finally stopped ocean dumping off the East Coast” “Not while I’m eating” I said.
“Tell him” Sims said. “Describe it in detail. Make him smell the smell”[1]
È il primo di una lunga serie di pasti ostruiti, quasi di veri e propri coiti interrotti, di godimenti intralciati, dalla costante e asfissiante presenza di scarti, dell’antimerce.
Il ristorante come discarica
O ancora, in una scena molto più eloquente:
“From the first day I find that everything I see is garbage. […] I went to a new restaurant last week, nice new place, you know, and I find myself looking at ascraps of food on people’s plates. Letftovers. I see butts in ashtrays. […] “You see it everywhere because it is everywhere” […] “We get outside and we’re waiting. The guy’s bringing our car around. I peer into the alley meanwhile. And I see something curious. An enclosure, a barred enclosure set along the wall. A case basically. Three sides and a top. Wrought iron bars and a big padlock. A case basically. […] And I smell it before I see it. The cage is filled with bags of garbage. Food waste in plastic bags. A day and night of restaurant gargabe”[2]
Big Sims, un altro collega di Nick Shay, vede la realtà come un’immane raccolta di antimerci, dove gli scarti per quanto nascosti sono capaci comunque di fare capolinea fra le pieghe ovattate e luminose delle vetrine capitalistiche.
Il ristorante non è un luogo in cui la merce alimentare trova la sua ragion d’essere, lì non vengono serviti dei cibi bensì direttamente degli scarti, degli avanzi; l’uomo è talmente lucido da saltare direttamente la fase del consumo per approdare a quella del rifiuto.
Subito fuori dal ristorante, difatti, sorge immediato il cestino dei rifiuti. Dove c’è il cibo c’è anche la spazzatura, l’esito finale degli oggetti consumati, come si evince dalla nefasta situazione di Willie Mabrey, un ristoratore che non riesce correttamente a smaltire tutti gli avanzi che produce. Non c’è alcun distacco fra alimenti e residui, le due cose convivono: «“I filled up the trunk while they are still eating their dinner”»[3].
L’inversione logica: la spazzatura è cibo
Ma se è possibile intendere la merce come antimerce, il cibo come spazzatura, è legittimo anche il contrario:
Marian and I saw products as garbage even when they sat gleaming on store shelves, yet unbought. We didn’t say, What kind of casserole will that make? We said, What kind of garbage will that make? Safe, clean, neat, easily disposed of? […] First we saw the garbage, then we saw the product as food of lightbulbs or dandruff shampoo. How does it measure up as waste, we asked.[4]
Nick e sua moglie sono prigionieri della stessa perversione – o della stessa visione epifanica, dipende da come la si consideri – di Big Sims. Gli oggetti sono innanzitutto scarti, spazzatura che è possibile adoperare per uno scopo trasformandola brevemente in una merce, ma che ritorna ad essere inevitabilmente antimerce. La ciclicità usa-e-getta viene interrotta, ciò che si ha è solo un detrito capace di assolvere ad un breve compito, e mai un prodotto espressamente tale.
Tutto ciò viene coadiuvato dal continuo riferimento nel testo agli scarti fisiologici, una specie di presenza sotterranea e costante che corrompe le vite in superficie, che infrange le apparenze di benessere e buon costume. Basti pensare ai tremendi movimenti intestinali di cui è preda Marvin, un altro dei principali personaggi, nel suo viaggio verso l’Europa o, in maniera ancora più significativa, al legame fra urina e bevande durante un ballo di gala:
Men entered and left, carrying a single sullen murmur in and out of the tiled room. They unzipped and peed. They urinated into mounds of crushed ice garnished with lemon wedges. They unzipped and zipped. They peed, they waggled and they zipped[5].
Il cibo non sazia: la strategia dell’insoddisfazione
Fra l’altro, le poche volte in cui il cibo non viene affiancato alla spazzatura, il pasto è comunque insoddisfacente, in qualche modo interrotto o falsificato. Nick non mangia provando godimento, non si nutre assaporando il cibo ma quasi per dovere, sacrificando il gusto di fronte alla necessità delle diete e del benessere fisico propugnato dalle pubblicità e dai modelli culturali.
Il protagonista mangia quasi unicamente «lifestyle salad»[6], preferisce scambiare «my dessert for his radishes because I’m fit and he’s not»[7]. In generale, il pasto diventa un rituale, una forma di collettività costruita e artificiale, un consumo da effettuare ciecamente e in maniera sbrigativa senza alcun godimento. Ciò si nota soprattutto nella descrizione del frigorifero di casa Deming:
He went into the kitchen and opened the fridge, just to see what was going on in there. The bright colors, the product names and logos, the array of familiar shapes, the tinsel glitter of things in foil wrap, the general sense of benevolent gleam, of eyeball surprise, the sense of a tiny holiday taking place on the shelves and in the slots, a world unspoiled and ever renewable[8].
Il tutto appare come se fosse la vetrina di un negozio: il frigorifero non contiene del cibo ma della merce in vendita, dei prodotti affascinanti più per il loro aspetto e per la loro disposizione che per il loro effettivo utilizzo. Notare come non si sappia che alimenti ci siano effettivamente, le uniche cose che sono date da sapere al lettore sono il colore, la lucentezza e soprattutto la marca – come in un’enorme pubblicità.
L’arte può rivitalizzare il cibo e la spazzatura
Ci sono, tuttavia, alcune importanti eccezioni, dei casi straordinari in cui il cibo rimane tale e il pasto prosegue senza intralci o intoppi. È molto significativo notare come i due personaggi che più di tutti sembrano godere del cibo, che riescono a mangiare normalmente, siano proprio i due maggiori artisti del testo: Klara Sax e Ismael Munoz.
Ciò non è affatto un caso: in quanto individui capaci di rivitalizzare gli scarti, di infondere vita ad oggetti altrimenti distrutti attraverso le loro installazioni artistiche, Klara e Ismael riescono a separare la merce dall’antimerce, sono in grado di correggere lo sfasamento dialettico separando distintamente i due estremi. Anche Nick Shay riuscirà nell’epilogo dell’opera a godersi un pasto come si deve, a dimenticare per un attimo la sua passione feticistica per l’antimerce godendo al contrario dei favori della merce alimentare:
I follow Viktor into a briefing room where tureens and serving plates are spread across a table, heaped with smoking food. […] The food makes me happy for a time. I eat everything I can reach. Meat, fish, eggs, my appetite is enormous. The vodka looks beautiful, with a lucent ruby softness that belies its spice and bite. I fill myself to near capacity, feeling rebuilt, fundamentally sound and content, proteinized.[9]
Aldo Baratta per Questione Civile
Bibliografia
DELILLO Don, Underworld (1997), Picador, London, 2011.
[1] Don DeLillo, Underworld (1997), Picador, London, 2011, p. 91.
[2] Ivi, p. 283.
[3] Ivi, p. 362.
[4] Ivi, p. 121.
[5] Ivi, p. 577.
[6] Ivi, p. 277.
[7] Ivi, p. 790.
[8] Ivi, pp. 517-518.
[9] Ivi, pp. 794-795.