Il Fegato di Piacenza e la religione degli Etruschi
Nella sezione archeologica dei Musei di Palazzo Farnese a Piacenza, che da poco ha inaugurato un nuovo allestimento, si trova un oggetto probabilmente sconosciuto alla maggior parte delle persone, ma che ricopre un ruolo documentario davvero unico. Stiamo parlando del Fegato di Piacenza, un piccolo bronzo che dal momento del suo ritrovamento ha fornito un contributo fondamentale nel campo dello studio della religione e della società etrusca.
In questo articolo cercheremo di delineare la storia del suo ritrovamento, del suo studio e l’importanza storica e archeologica che lo stesso riveste per l’Etruscologia.
La storia della scoperta
Nel 1877 durante alcuni lavori agricoli in una località a pochi chilometri da Piacenza, Settima di Gossolengo, un contadino rinvenne un oggetto molto particolare: un modellino bronzeo di fegato ricoperto di scritte in lingua e alfabeto etruschi. Compresa quasi subito l’importanza del ritrovamento, iniziarono studi su questo oggetto, patrocinati soprattutto dal conte Caracciolo, colui che successivamente lo donò al Museo. Già pochi anni dopo il ritrovamento furono scritti alcuni contributi fondamentali a riguardo, ma gli studi si sono susseguiti (fondamentale risulta quello di Maggiani degli anni Ottanta) e ancora oggi gli esperti forniscono aggiornamenti e letture approfondite su vari aspetti.
Il Fegato di Piacenza: descrizione
Si tratta di un modello a dimensione naturale del fegato di un ovino: si compone di una faccia piatta, ricca di iscrizioni e con protuberanze che riproducono in maniera abbastanza naturale alcune parti dell’organo, e una convessa su cui sono riportate solo due scritte. Le iscrizioni su entrambi i lati riferiscono nomi di divinità etrusche.
La tipologia dell’oggetto potrebbe lasciare alquanto sorpresi, ci si potrebbe domandare il senso di iscrivere i nomi divini su un fegato animale. In realtà la disciplina divinatoria etrusca era divisa in differenti pratiche e una di queste era proprio l’epatoscopia, ovvero l’arte di leggere la volontà delle divinità tramite l’osservazione e l’interpretazione degli organi interni degli animali sacrificati, in particolare il fegato degli ovini, soprattutto pecore. Non sono rare infatti le rappresentazioni, come quelle su specchi e urne cinerarie, di questi organi o di sacerdoti intenti alla loro manipolazione e lettura.
Il bronzo ritrovato a Piacenza è straordinario in quanto per la prima volta è stato possibile avvalersi del dato archeologico a supporto delle ipotesi ricostruttive sul tipo di lettura a cui questo organo era sottoposto da parte dei sacerdoti. Come vedremo il fegato ricopriva una funzione importante nell’arte divinatoria in cui gli Etruschi eccellevano tra i popoli dell’Italia antica.
Andiamo adesso ad analizzare più nel dettaglio la composizione dell’oggetto e delle sue iscrizioni per comprendere meglio la funzione che rivestiva.
Il contesto geografico del Fegato di Piacenza
Prima di addentrarci nell’analisi occorre però osservare che il luogo di rinvenimento, la campagna piacentina, risulta piuttosto “anomalo”, in quanto la città in antichità non rientrava propriamente in territorio etrusco. Tramite l’analisi paleografica (ovvero del modo in cui sono conformate le lettere e le regole grammaticali utilizzate) è stato possibile datare l’oggetto tra gli ultimi anni del II secolo a.C. e gli inizi del I secolo a.C.
Alcuni studiosi ritengono, quindi, che il modellino bronzeo potesse essere stato smarrito da un aruspice che, secondo una pratica attestata durante tutta la storia militare romana, seguiva gli eserciti di Roma durante uno dei numerosi interventi militari seguiti alla deduzione coloniale di Piacenza nel 218 a.C. per il controllo della Pianura Padana. Altri invece ritengono che potesse essere stato utilizzato da sacerdoti al servizio di una piccola comunità etrusca stanziatasi nella zona a seguito della cacciata degli Etruschi dall’Emilia dopo la discesa dei Galli.
Sempre l’analisi paleografica ha permesso di riconoscere che il luogo di scrittura deve essere individuato nella zona a Nord-Ovest della città di Chiusi.
Il fegato come rappresentazione del cielo
La faccia esterna si presenta convessa e riporta, come già accennato, solo due iscrizioni, l’una riferibile alla divinità Tivs, la Luna, e l’altra a Usils, il Sole, quindi si comprende che questo lato è dedicato agli astri.
La faccia piana è divisa in un nastro che corre lungo il margine esterno, suddiviso a sua volta in sedici caselle. Questo nastro è stato interpretato, in base ai nomi divini riportati e a confronti con testi classici latini, come la rappresentazione del cielo, il templum. Secondo gli antichi questo era suddiviso in quattro parti, derivanti dagli incroci dei punti cardinali, e ognuno a sua volta era formato da altre quattro sezioni, da cui appunto si hanno le sedici caselle presenti sul fegato bronzeo.
La descrizione della volta celeste divisa in 16 caselle è presente in autori latini, come Seneca che ci parla anche della presenza di dei favorevoli o sfavorevoli, a seconda della zona del cielo a cui ci si rivolge. Anche un autore tardo, l’erudito cartaginese Marziano Capella, vissuto tra il IV e il V secolo d.C., in una sua opera descrive i settori celesti in cui vivevano le diverse divinità, probabilmente seguendo una descrizione derivata proprio dallo studio di testi sacri etruschi.
L’interpretazione del Fegato
Le rappresentazioni figurate rappresentanti i sacerdoti con in mano il fegato animale ci permettono di capire anche come lo stesso doveva essere maneggiato. L’organo dell’animale sacrificato, e di conseguenza quindi anche il modello bronzeo di Piacenza, debitamente orientato rappresentava il cielo e tramite esso era possibile ricondurre i segni provenienti dal cielo come messaggi mandati dalla divinità titolare della rispettiva casella celeste da cui questi provenivano. Tra i segni divini provenienti dal cielo e che era possibile interpretare solo se si conosceva bene la divisione del templum un ruolo principe era ricoperto dai fulmini.
L’arte fulgurales, ovvero la disciplina religiosa che si occupava di interpretare le volontà divine in base agli eventi atmosferici, prescriveva che ogni divinità mandava un determinato messaggio tramite un particolare tipo di fulmine. Comprendere da quale parte del cielo, e quindi da quale sede divina, provenisse il fulmine aiutava a comprendere il tipo di messaggio o prescrizione richiedeva il dio e quindi quale tipo di sacrificio o rituale era necessario per assecondare il volere divino.
Le divinità riportate sul Fegato di Piacenza
La parte interna della faccia piatta è anch’essa divisa in caselle che riportano i nomi di numi, alcuni dei quali già presenti nella fascia esterna. La funzione del fegato di Piacenza, ovvero quello di strumento atto all’insegnamento della pratica divinatoria, è qui esplicitata ancora una volta. Infatti l’epatoscopia si occupava, come accennato, di leggere il volere degli dei e prevedere l’esito fausto o nefasto di un evento tramite la lettura di anomalie o deformazioni sul fegato dell’animale sacrificato. Ancora una volta era possibile risalire alla divinità mittente di un determinato messaggio tramite la perfetta conoscenza dell’arte divinatoria e in questo senso il modello di Piacenza rappresenta un vero e proprio prontuario da utilizzare.
Il fegato bronzeo di Piacenza riporta solo alcuni nomi di divinità del pantheon etrusco: per citare i principali abbiamo Tin (il corrispettivo del Giove romano), Uni (Giunone), Neth (Nettuno), Fufluns (Bacco), oltre ad altre personalità divine non sempre affini a quelle del pantheon greco-romano, ma più squisitamente di ambito etrusco-italico.
Seppur si tratta solo di una rapida e sicuramente non esaustiva analisi, è facile comprendere come questo modello bronzeo abbia dato un contributo fondamentale allo studio di numerosi aspetti non solo della religione etrusca e delle sue personalità divine, tra l’altro ben note da numerosi altri documenti archeologici.
Il Fegato di Piacenza ha permesso di ricostruire molto dei rituali, del modo in cui era concepita l’arte divinatoria e della rigidità e minuziosità con cui tali pratiche erano attentamente messe in pratica dalla classe sacerdotale etrusca. Questa in quanto titolare e custode dei segreti dell’arte divinatoria e quindi tramite e interlocutore diretto con la divinità, godeva di un prestigio e un rispetto davvero elevato nella società.
Carmine De Mizio per Questione Civile
Bibliografia
Colonna G., A proposito degli dei del fegato di Piacenza, Studi Etruschi LIX, 1993, pp. 123-139
Deecke W., Das Templum von Piacenza, 1880
Maggiani A., Qualche osservazione sul fegato di Piacenza, in Studi Etruschi L, 1984, pp. 53-88
Thulin C. O., Die Gotter des Martianus Capella und der Bronzeleber von Piacenza, 1906