In Verrem: l’avvocato Cicerone contro il pretore Verre
«Huic ego causae, iudices, cum summa voluntate et expectatione populi Romani, actor accessi,
non ut augerem invidiam ordinis, sed ut infamiae communi succurrerem.»
Con queste parole Cicerone dà l’avvio all’orazione In Verrem e si presenta quale pubblico ministero in una delle sue cause più famose: quella condotta nel 70 a.C. contro il pretore romano della Sicilia Gaio Licinio Verre. Durante il suo governo, Verre si macchiò di innumerevoli crimini e ingiustizie con l’obiettivo di accrescere il suo potere e le sue ricchezze personali. Il popolo siciliano accusò il pretore di de pecuniis repetundis, ovvero di concussione, e affidò il caso alla professionalità di Cicerone.
Le sette orazioni composte per il processo sono conosciute con il nome di Verrine e sono raccolte in:
– Divinatio in Q. Caecilium;
– In G. Verrem actio prima;
– In G. Verrem actio secunda.
«Questo è il processo in cui voi giudicherete l’imputato, ma il popolo romano giudicherà voi.»
In Verrem: divinatio in Q. Caecilium
Questa prima parte delle Verrine contiene il dibattito preliminare sostenuto in tribunale affinché si potesse stabilire chi sarebbe stato l’accusatore nel processo contro Verre. Il Cecilio contro cui si scaglia Cicerone era – come lo definisce lo stesso oratore – «un uomo di paglia» finanziato da Verre che, in qualità di accusatore, non avrebbe di certo difeso i siciliani. Cicerone denuncia il piano del pretore e delegittima Cecilio.
Dal canto suo, Verre sceglie come difensore al processo Quinto Ortensio Ortalo, famosissimo avvocato e oratore dell’epoca che non sbagliava mai un colpo.
Una volta accettata l’accusa e stabiliti sia l’avvocato dell’accusa che l’avvocato della difesa, il presidente del tribunale preparava il processo e ne stabiliva le tempistiche, imponendo all’accusato una serie di limitazioni fino a quando il processo non si fosse concluso, come concorrere per una carica pubblica.
In Verrem: dalla divinato all’actio
Quando era necessario fare indagini lontano da Roma (inquisitio), l’accusatore poteva ottenere fino a tre/quattro mesi di aggiornamento. Le ricerche erano condotte sotto la protezione della legge e con l’aiuto di un certo numero di collaboratori: all’avvocato era fornita l’autorità per imporre a chiunque l’esibizione di documenti interessanti, procedere a perquisizioni domiciliari e l’aiuto per assicurarsi la comparsa dei testimoni utili.
Il periodo di inquisitio era prorogato qualora vi fossero ricorrenze di giorni festivi e pubbliche cerimonie. In un giorno stabilito, poi, entrambe le parti in causa comparivano davanti al magistrato per costituire l’assemblea dei giudici scelti per il loro processo: veniva presentata loro la lista dei senatori – solo di coloro i quali, ovviamente, non avevano alcun impedimento a fungere da giudice –e si procedeva all’estrazione a sorte di quelli che dovevano comporre l’assemblea del tribunale. Giunto il giorno del processo tutte le persone interessate erano convocate per intervenire all’ udienza.
Se il reo dichiarava subito di riconoscere l’imputazione fattagli e cercava attenuanti alla sua colpevolezza implorando la pietà dei giudici, si rendeva superfluo lo svolgimento del processo (confessio); in caso contrario, l’accusatore apriva il dibattito con un’orazione che trattava in sintesi tutti gli argomenti fondamentali dell’accusa (actio).
In Verrem: in G. Verre actio e actio secunda
«Passo ora a parlare di quella che il nostro imputato chiama passione,
i suoi amici mania morbosa, i siciliani rapina continuata.»
Nella seconda orazione, In Verrem actio prima, Cicerone racconta come sia stato ostacolato nelle indagini da lui svolte in Sicilia e spiega i sistemi messi in atto da Verre per rimandare il processo all’anno successivo, sperando in un giudice a lui più favorevole. Cicerone, inoltre, spiazza Verre ed il suo difensore Quinto Ortensio Ortalo rinunciando ad una delle sue classiche lunghe esposizioni e passando direttamente all’ascolto dei testimoni.
Cicerone dimostrò grande prontezza e intelligenza tattica, perché nonostante avesse a disposizione parecchi giorni per preparare la requisitoria, sconvolse il piano della difesa e le consuetudini giudiziarie per evitare la lunga sospensione che il processo avrebbe subito di lì a quindici giorni, preferendo pronunciare un breve discorso e procedendo subito con l’ascolto dei testimoni. L’accusatore riuscì ad interrogare i testimoni in soli nove giorni: le prove raccolte furono talmente schiaccianti che Ortensio abbandonò il dibattito al secondo giorno e Verre al terzo.
«Quando affermo che Verre non ha lasciato nell’intera provincia nessuno di questi oggetti d’arte,
sappiate che adopero le parole nel loro senso letterale, non con l’esagerazione degli accusatori.
Sarò ancora più esplicito: non ha lasciato nulla in caso di nessuno e nemmeno nelle città,
nulla nei luoghi pubblici e nemmeno nei santuari, nulla in casa di un siciliano e nemmeno
di un cittadino romano; […] costui non ha lasciato nell’intera Sicilia assolutamente nulla.»
Cicerone aveva ormai virtualmente vinto, rendendo inutile la declamazione dell’actio secunda. Si cercarono delle soluzioni tra le due parti, non per evitare la pena, ma per attenuarla: si scelse l’esilio.
Un viaggio nell’arte
Verre era un appassionato d’arte e un collezionista, ma aveva accumulato una fortuna in statue, quadri e mobili pregiati in modo illecito, ovvero sottraendo le opere ai legittimi proprietari e spesso ricorrendo anche alla violenza. Per questo motivo, per sostenere le sue accuse, Cicerone elenca la maggior parte delle opere rubate e gli artisti che le avevano realizzate, perlopiù di origine greca.
Le parole dell’avvocato sono interessanti non solo perché forniscono numerose informazioni circa i capolavori dell’epoca, ma anche perché testimoniano la passione nutrita dai cittadini romani per l’arte greca. Tra le tante storie da lui riportate campeggia quella di Gaio Eio, nella cui casa – si dice – «c’era una cappella privata molto antica con quattro bellissime statue di squisita fattura, universalmente note».
Cicerone, tuttavia, di arte non capisce un bel niente: ciò che scrive è frutto di un’accurata ricerca, ma la sua personale preparazione in ambito artistico è molto limitata: quando cita lo scultore greco Prassitele, ad esempio, lui stesso ammette di aver imparato il suo nome mentre conduceva l’inchiesta per il processo. Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che Cicerone potesse non avere una brillante preparazione in storia dell’arte perché all’epoca si credeva che «il vero romano fosse qualcuno in grado di tralasciare perdite di tempo come l’arte per dedicarsi ad affari più importanti».
Solo in un secondo momento i Romani impareranno ad apprezzare e amare l’arte, divenendo collezionisti accaniti e trasformando l’aspetto della stessa Roma.
Maria Rita Gigliottino per Questione Civile.
Bibliografia:
G. Geraci, A. Marcone, Storia romana, Mondadori, 2016.
G.B. Conte, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’impero romano, Firenze, Le Monnier, 2002.