Dall’epica alla tragedia attraverso la lirica corale
Creazione massima del genio attico, la tragedia rappresenta uno dei veicoli privilegiati con cui l’artista trasmette alla collettività cittadina una serie di messaggi a carattere religioso, etico e politico. Non è possibile stabilire con certezza quando sia nata la tragedia come forma d’arte, poiché lo spettacolo tragico è solo l’ultimo stadio dell’evoluzione culturale dell’uomo greco.
In principio c’erano Omero e l’epica che descrivevano un mondo che il pubblico doveva essere in grado di raffigurare nella propria mente affinché potesse assumere dei tratti concreti. Chi ascoltava doveva immaginare i personaggi di cui venivano cantate le gesta, dar loro un volto e disegnare con gli «occhi della mente» i luoghi in cui si muovevano.
La lirica corale creò la prima forma di spettacolo, seppur primitiva: il poeta sceglieva un breve passo da una certa saga e lo rappresentava attraverso il movimento fisico del coro. La tragedia, infatti, nasce come «fatto corale» ed è per questo motivo che il coro è considerato un elemento fondamentale.
Il significato del termine «Tragedia»
Un problema non ancora risolto è quello legato alla corretta interpretazione del termine τραγῳδία. Secondo gli antichi il vocabolo derivava dalle parole τράγος («capro») e ᾠδή («canto»). L’interpretazione più diffusa in età pre-ellenistica è quella di «canto dei capri» con allusione al travestimento dei coreuti, che indossavano maschere caprine.
Fra gli eruditi alessandrini si affermò invece una diversa spiegazione della parola, quella di «canto per il capro», sia che ciò debba intendersi nel senso che l’animale sarebbe stato il premio di improvvisate e rustiche contese canore – come attestato da Orazio nell’Ars poetica –, sia che invece esso fosse stato la vittima di un sacrificio propiziatorio – come attestato da Virgilio nelle Georgiche riprendendo forse un luogo della perduta Erigone di Eratostene –.
Il pensiero degli antichi sull’origine
«Entrambe [sott. la tragedia e la commedia] nacquero dall’improvvisazione: la tragedia da quelli che intonavano il ditirambo […]. Eschilo fu il primo a portare gli attori da uno a due, a ridurre la parte del coro e a rendere protagonista la parola; Sofocle introdusse il terzo attore e la decorazione della scena […]. All’inizio usavano il tetrametro perché la composizione era satiresca e orientata verso la danza; ma quando si affermò il parlato, fu la natura stessa a trovare il metro idoneo: il giambo è infatti il metro più colloquiale […]. Tragedia è opera imitativa di un’azione seria, completa […], adatta a suscitare pietà e paura, producendo di tali sentimenti la catarsi […].»
È questa la prospettiva che Aristotele illustra nella sua celebre Poetica, la quale, tuttavia, risulta tutt’altro che chiara, giacché non sembra a prima vista agevole poter conciliare sentimenti quali la pietà e la paura con componimenti come il ditirambo e il dramma satiresco, essendo il primo un canto lirico in onore di Dioniso e il secondo addirittura una sorta di opera buffa piena di lazzi spesso osceni.
Come e quando lo stesso ditirambo sia divenuto un canto corale e perché Dioniso abbia gradualmente ceduto il passo agli eroi del mito come oggetto di esso non è un dato facile da ricostruire. Lo storico greco Erodoto tramanda che Clistene, tiranno di Sicione, durante la guerra contro Argo sostituì al culto dell’eroe argivo Adrasto – venerato dai suoi stessi sudditi mediante cori tragici – quello del tebano Melanippo e che fece dedicare i cori a Dioniso.
Una versione simile è tramandata dal Lessico Suda: un certo Epigene avrebbe cercato di introdurre a Corinto i cori tragici in onore del dio suscitando però una violenta reazione popolare che vide uomini e donne gridare: «Non vogliamo avere nulla a che fare con Dioniso!».
Tragedia e catarsi
Con il termine «catarsi» si intende la purificazione delle passioni umane che la tragedia è in grado di suscitare nello spettatore. Nella sua opera Aristotele ne ha formulato una celebre definizione, ma risulta essere troppo sintetica: piuttosto, è stato lo studioso tedesco Goethe a istituire una cornice più ampia e generale dentro cui inserire la concezione del tragico greco.
«La tragedia è fondata su un conflitto inconciliabile. Se interviene o diventa possibile una conciliazione, il tragico scompare.»
Nella visione di Goethe l’idea del tragico è fondata su due cose che non possono in alcun modo essere conciliate tra loro, perché è solo nel momento in cui non si trova l’accordo e il lieto fine che può dirompere la tragicità con tutta la sua forza. Nell’esperienza dell’uomo il conflitto che in assoluto non può trovare una via d’uscita è quello esistente tra libertà e necessità.
Infatti, per quanto giusti e validi siano i suoi motivi e per quanto grandissime siano le sue capacità, all’uomo non è dato prevalere in alcun modo sul corso degli eventi: quando i latini affermavano «homo faber fortunae suae» entravano in piena contraddizione con la tragedia greca, perché interviene sempre e comunque il caso a modificare il nostro progetto. Occorreva prendere atto della ricorrente possibilità che un’azione rivolta ad un fine si rivelasse opposta alle conseguenze desiderate.
A questo punto l’uomo si sarebbe potuto rassegnare ad un inerte fatalismo, ma, invece, imparò a scaricare le tensioni che provenivano da questa dolorosa presa di coscienza nella forma artistica della tragedia, che per Goethe si configura come il tentativo da parte dell’uomo greco di esorcizzare ciò.
La tragedia come coscienza tragica
Ciò che risulta essere davvero tragico, dunque, è la nuova consapevolezza acquisita dall’uomo: il libero arbitrio, in realtà, non esiste, perché le azioni sono già scritte e decise dagli dei. La tragedia è il confine dove si fronteggiano la necessità imposta dall’esterno e la volontà dell’uomo ad agire secondo il proprio determinismo, accettando questo destino ma non subendolo passivamente.
Voler decidere, agire, errare e patire sono prerogative individuali e l’eroe è tale perché assume su di sé la responsabilità della propria sorte. In fondo, non può fare altro: la tragedia mette in scena il mito, ovvero il racconto preliminare in cui la storia si è già verificata e che funge da gabbia per l’eroe e il suo destino, perché se nel mito Medea uccide i suoi figli, allora anche nella tragedia Medea farà lo stesso.
Maria Rita Gigliottino per Questione Civile
Bibliografia
M. Casertano, G. Nuzzo, Storia e testi della letteratura greca, volume 2, Milano, Palumbo, 2011.