L’Ebe di Canova e il suo legame con Angelo Maria Ricci

Ebe

Alla ricerca del Bello. Sulle tracce di Ricci e Canova: l’Ebe alla mostra del Museo Civico di Rieti

Nel 2022 ricorreva il bicentenario della morte del più grande maestro del Neoclassicismo, il veneto Antonio Canova, e protagonista di questa mostra è l’Ebe.

Per celebrare la ricorrenza della morte dell’artista, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Rieti, in collaborazione con la Regione Lazio, la Biblioteca Paroniana, la Diocesi e l’Associazione Culturale Riattiviati, ha realizzato una mostra diffusa in grado di offrire una più ampia conoscenza dell’artista e dei suoi rapporti con il grande mecenate Angelo Maria Ricci.

L’evento si inserisce all’interno delle differenti mostre che si sono svolte e che, attualmente, si stanno svolgendo nel nostro Paese.

Il percorso origina dal Museo Civico della città, ove estrema importanza assumerà l’Ebe di Canova, per poi uscire dalle mura della Pinacoteca per raggiungere diversi luoghi legati sia al rapporto di Ricci con lo scultore, sia al gusto neoclassico locale: la cappella Vincenti Mareri, (Duomo) Palazzo Vincenti Mareri, Palazzo Ricci e, infine, la Basilica di Sant’Agostino.

L’Ebe in dono dal fratello di Canova

Angelo Maria Ricci, poeta reatino, strinse amicizia anche con il fratello di Antonio Canova, il prelato Giovanni Battista Sartori Canova, al quale scriveva anche per non disturbare lo scultore. L’amicizia tra i due fu duratura, testimoniata dalle molte epistole che i due si scambiarono, parte del Fondo Ricci della Biblioteca Paroniana.

È grazie a questo rapporto che il gesso dell’Ebe giunse a Rieti: Isabella Ricci, moglie del poeta, aveva voluto omaggiare Antonio Canova ritraendolo in un ricamo, arte in cui era particolarmente abile. La morte dello scultore, avvenuta a Venezia il 13 ottobre del 1822, impedì ad Isabella di consegnargli il dono. Per tale motivo, i coniugi Ricci si recarono a Roma, l’anno seguente, per consegnare il ricamo a Giovanni Battista Sartori Canova.

Egli apprezzò molto la gentilezza dei Ricci tanto che, al fine di suggellare l’amicizia che li legava al suo defunto fratello, decise di donare loro il gesso dell’Ebe. Tale donazione è documentata da due lettere, esposte, per la mostra, accanto all’opera di Canova.

Le differenti versioni dell’Ebe di Canova

L’opera esposta al Museo Civico di Rieti è l’ultima delle quattro versioni dell’Ebe e, precisamente, dell’esemplare in marmo conservato presso la Pinacoteca civica di Forlì. La scultura venne commissionata dalla contessa Veronica Guarini di Forlì a Canova; successivamente furono poi gli eredi della donna a farne dono alla Pinacoteca romagnola.

Le due versioni precedenti, rispettivamente del 1796 (Nationalgalerie di Berlino) e del 1800-1805 (Ermitage di San Pietroburgo) furono accusate di essere troppo “barocche” e anticlassiche a causa dell’uso della nuvoletta come basamento, sostituita nelle versioni successive da un tronco, e i dettagli in bronzo dorato.

Il gesso del Museo Civico di Rieti

L’Ebe reatina, in gesso e bronzo dorato, giunse in Pinacoteca grazie all’attività del fratello di Canova e del mecenate locale Ricci. Fu proprio l’abate Giovan Battista Canova a donarlo, quale ricordo dell’artista deceduto nel 1822, ad Angelo Maria Ricci.

Ebe, colta dallo scultore nel suo incedere, sembra danzare. È sorretta da un tronco, il braccio destro è sollevato a sorreggere un’anfora in bronzo dorato, mentre la mano sinistra stringe una coppa, pronta a deliziare gli Dei con il suo contenuto. Canova immortala la protagonista mentre si posa in punta di piedi, la gamba sinistra in appoggio, la destra ancora leggermente sollevata indietro. Il suo sguardo è fisso in avanti, la bocca leggermente socchiusa, mentre un sorriso appena percettibile discende sulle labbra.

La pelle, quasi diafana, diffonde la luce in modo uniforme, mentre i capelli, sollevati e riuniti in una sobria acconciatura, tra riccioli e ciocche, generano un vivace chiaroscuro. Ritratta seminuda, con i seni scoperti, Ebe indossa un abito leggero e svolazzante, che valorizza il suo corpo con un morbido panneggio che richiama i “panneggi bagnati” di ascendenza fidiaca. I piedi, delicatamente appoggiati sulla punta, levigati con cura, emanano un’infinita grazia, conferendo all’opera una leggerezza estrema.

Ebe: tra storia e letteratura

Nonostante fosse un soggetto poco rappresentato nell’arte antica, Ebe ricevette, al contrario, molta diffusione in letteratura: per Omero era la coppiera degli Dei, nell’Odissea fu la sposa di Eracle.

Ebe, figlia di Era e Zeus secondo Esiodo, mentre secondo Pindaro e Oleno incerta era l’identità del padre; era considerata unanimemente la divinità dell’eterna giovinezza. Considerando che questo dono è una delle caratteristiche degli Dei dell’Olimpo è difficile valutare esattamente il ruolo delle Dea. Forse in un periodo arcaico del mito la sua presenza era necessaria per conferire agli Dei la loro perenne giovinezza.

A Sicione, nel Peloponneso, Ebe era venerata come divinità della misericordia e del perdono, a Corinto esisteva un tempio dedicato alla divinità, infine nel ginnasio ateniese di Cinosarge, secondo Pausania, era presente un altare intitolato ad Ebe.

Presso i Romani il culto di Ebe si identificò con quello della Dea Iuventas, proveniente dall’epiteto latino Iuppiter (Giove), in quanto divinità che presiede ad ogni sviluppo degli iuvenes, ovvero degli uomini in età militare. Infatti nelle famiglie più ricche dell’antica Roma, si celebrava la festività detta “solemnitas togae purae”: ovvero una funzione ufficiale dei giovani che passavano dalla “toga praetexta” della fanciullezza, alla “toga virilis” del cittadino romano adulto. Essi si recavano in Campidoglio a deporre una moneta nel tesoro della Dea Iuventas e compivano un sacrificio sul suo altare.

Il culto di Ebe nell’antica Roma

A Roma il culto di Ebe, identificata con Juventas, fu introdotto assai precocemente: la prima raffigurazione conosciuta risale al III secolo a.C. Rispetto al mito greco, a Roma viene ulteriormente accentuato il suo significato allegorico, in senso politico e istituzionale come rappresentante di uno Stato giovane e forte. 

Juventas ebbe due luoghi di culto: il primo era una cappella situata nel tempio capitolino, all’ingresso della cella di Minerva. Il secondo santuario romano si trovava nelle vicinanze del Circo Massimo: il tempio lì situato era stato promesso nel 207 a.C. dal console Livio Salinatore, poiché pare che durante la battaglia del Metauro il console, già uomo di una certa età, avesse ricevuto da Juventas la forza della gioventù.

E durante il Medioevo?

Nel corso del Medioevo e fino al primo Rinascimento Ebe-Juventas sembra scomparire, fino agli anni ’30 del Cinquecento quando Parmigianino la ripropone accanto a Ganimede, così come la vediamo nel disegno conservato al Louvre. Secondo il racconto mitologico, Zeus, innamorato di Ganimede e colto da un impeto di passione, assume le sembianze di un’aquila e rapisce il bellissimo pastore affidandogli il compito di coppiere degli Dei, ruolo sino ad allora riservato a Ebe. Parmigianino si astiene dal rappresentare un momento specifico della narrazione mitica, ma coglie l’istante conclusivo del racconto ritraendo il giovane pastore già in possesso della coppa.

Tra XVI e XVIII secolo

Priva di una storia mitologica forte, l’immagine di Ebe, soggetta al mutare delle mode e alla fantasia degli artisti, si presta nel tempo a diverse interpretazioni, frutto di commistioni stilistiche e semantiche. Protagonista indiscussa nei ritratti di giovani aristocratiche del XVIII secolo, alla fine del Settecento gli attributi e le caratteristiche propri del mito vengono impiegati ancora una volta per creare un’immagine dal significato ambiguo.

La particolare iconografia di Ebe

Ma come dobbiamo immaginarci questa fanciulla?

«Ma come fosse fatta [Ebe] dà Greci non saprei dire, perché Pausania scrive che nel tempio dedicatole nel paese di Corinto in un certo boschetto di cipressi non ebbe questa dea statua alcuna che si mostrasse e manco che stesse occulta, per certa ragione misteriosa la quale egli non ha però voluto dire; né io l’ho saputa trovare scritta da altri».

Come afferma Vincenzo Cartari (XVI secolo) la divinità era sì venerata, ma non esistevano sculture con la raffigurazione della Dea.

Alcuni critici hanno attribuito questa mancanza di iconografia al fatto che Ebe era una divinità, per così dire, “minore”. Tuttavia, dal Cinquecento in poi l’iconografia della Dea ebbe una vita più fortunata.

Uno dei primi disegni è quello del Parmigianino, effettuato nel 1535 e a cui è chiaramente ispirata l’opera dello Schiavone di poco successiva; pochi anni dopo Hubert Gerhard, allievo del Giambologna, realizzò una statuetta in bronzo raffigurante la dea della giovinezza dotata di ampolla e calice.

Essendo un soggetto assai raro nelle raffigurazioni antiche, e dunque scevro di topoi iconografici, Ebe godette di un ampio successo tra Settecento e Ottocento sia per la libertà d’interpretazione lasciata agli artisti, sia per la tematica della figura colta in movimento di classica derivazione iconografica.

La fortuna iconografica della dea tra XVIII e XIX secolo

Tra il XVIII e XIX secolo tornò in voga tale iconografia. Nel 1796 l’artista americano Edward Savage realizza un’opera intitolata Liberty in the Form of the Goddess of Youth Giving Support to the Bald Eagle. Sebbene la tela originale sia oggi perduta, è stato ipotizzato che l’archetipo figurativo fosse un acquarello perduto del 1791 di William Hamilton, intitolato Hebe offering a cup to the Eagle. Conosciamo l’interpretazione di Savage grazie a un’incisione eseguita dallo stesso artista, che ebbe una larghissima fortuna popolare: Ebe è raffigurata nell’atto di offrire la coppa dell’eterna giovinezza all’aquila di Zeus. Qui sorprende l’inedita immagine elaborata da Savage, che immagina Ebe come personificazione della Libertà circondata da simboli politici estremamente espliciti che ricordano i recenti avvenimenti storici: la bandiera americana e il cappello frigio sovrastano la città di Boston come un’apparizione divina, mentre la giovane fanciulla che incarna la Libertà calpesta i simboli della tirannia.

Greta Cingolani per Questione Civile

Bibliografia

  • Giuseppe Pavanello e schede di Gianluca Tormen, Antonio Canova, in Grandi scultori, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2005.
  • Mario Praz, Gusto neoclassico, Rizzoli, 1990.
  • Giulio Carlo Argan, Antonio Canova, Roma, Bulzoni, 1969.
  • Hugh Honour, Paolo Mariuz, Edizione nazionale delle opere di Antonio Canova, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1994.
  • Federico Piscopo, Echi canoviani, Crespano del Grappa, 2016.
  • Federico Piscopo, Bianca Milesi. Arte e patria nella Milano risorgimentale, Crespano di Pieve del Grappa, 2020.
  • Maria Letizia Putti, Canova. Vita di uno scultore, Roma, Graphofeel, 2020.
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