L’uomo come problema e la riflessione sullo Stato moderno
È una vulgata priva di consistenza, e fortunatamente sempre meno vulgata, quella che identifica l’Umanesimo con il trionfo dell’Uomo. Si badi: se s’intende con «trionfo dell’Uomo» la spinta secolarizzante che tenta di portare la discussione pubblica sui problemi dell’aldiquà invece che su quelli dell’aldilà, non si erra a usare tale concetto per l’Umanesimo. Se però s’intende che la considerazione dell’Uomo esca «migliorata», che cioè un Alberti o un Boccaccio, un Machiavelli o un Guicciardini, abbiano ricuperato all’uomo una sua dignitas, si erra. Certo è che uno dei punti focali delle discussioni di questi secoli è stata la costituzione dello Stato moderno.
È bene ricordare come l’Umanesimo sia, nella sua essenza, tragico: nato dalle macerie della Peste e dal dubbio che non vi fosse la Provvidenza ad assistere l’uomo in quell’occasione (e in tante altre).
I filosofi Massimo Cacciari e Michele Ciliberto ben ricordano tutto ciò rifacendosi alla produzione albertiana e a quella machiavelliana, e giungendo alle medesime conclusioni. L’arte, intesa come alterazione della Natura, di cui Alberti fornisce una prima teorizzazione moderna nell’ambito architettonico-pittorico, e Machiavelli in quello politico, compie quel suo balzo, quel suo straordinario sviluppo proprio in ragione di un’avversità di fondo nei confronti della Natura, maturata in anni di crisi. Di profonda crisi. Gli anni dell’Umanesimo. Anni da cui l’uomo, con la sua esistenza, in quanto parte di quella Natura, esce giudicato come un problema.
Lo stato moderno e l’arte della politica in Machiavelli
L’arte (o tecnica), col suo portato luciferino (cioè avverso all’ordine naturale), permette all’uomo non la salvezza, ma una migliore esistenza. Se è inutile, è la somma sfida agli dei: realizza qualcosa non solamente «contro Natura», ma ancor più insensato della Natura stessa, e ciò produce la sua bellezza/sublimità. È il caso, appunto, della pittura, della scultura, della letteratura.
La politica, che però deve essere utile, pure si configura come arte, come tecnica. Tale almeno è a partire dalle riflessioni machiavelliane, che la dichiarano non più scienza se non divina, «divinata», che permette al sovrano di mantenere l’ordine naturale/provvidenziale; bensì arte, sovvertimento di un ordine naturale caotico: poiché noi umani siamo caotici, e il nostro «ordine naturale» è un dis-ordine.
Il tentativo di far ordine è quello che Machiavelli affida a un «principe» nell’omonimo trattato. Ma si badi a comprendere bene i termini «ordine» e «principe», e a non fare del gran Fiorentino un reazionario (cosa che ahinoi, nell’infame periodo fascista, fu fatta). Infatti, con «ordinata» s’intende una società non repressa, bensì governata, stabile nei limiti del possibile. E con «principe» – sorpresa! – s’intende in realtà un magistrato repubblicano (ciò che verrà ampiamente confermato nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, opera più grande del Machiavelli a dell’immenso Gennaro Sasso).
Tutto parte dalla conoscenza e dalla virtù
Machiavelli ci abitua ai paradossi: così come il principe ideale è in realtà un magistrato eletto, lo stato «moderno» deve in realtà affondare le proprie radici nell’«antico». Oltre alle varie considerazioni proposte nel Principe e concernenti il dovere per quest’ultimo di farsi «allievo» della storia (antica) che è magistra uitae, il Nostro ribadisce nei Discorsi come la Roma antica – repubblicana, sia pure idealizzata – sia il periodo storico cui guardare per attingere a quella virtù politica necessaria nella modernità. Non che lo sguardo debba rimanere voltato all’indietro: il Machiavelli è conscio dell’irripetibilità in età moderna del repubblicanesimo romano, il suo pensiero essendo anzi incardinato su una di forte messa in discussione del principio di autorità in politica e sulla consapevolezza che nulla, nei caotici fatti umani, si ripresenta uguale due volte.
Ecco dunque che il richiamo alla virtù, intesa come capacità umana di agire, di re-agire dinnanzi alle avversità della «fortuna» (caso), e di usare il proprio ingegno liberamente, acquista un senso quasi rivoluzionario. La virtù è quella postura eretta necessaria a superare uno stato di cose politiche «tirannico» oppure, noi diremmo, «medievale»; è il moto di conquista di un nuovo orizzonte politico da sostituire a ciò che, molti anni dopo, Nietzsche avrebbe definito «morale degli schiavi»: l’impianto cristiano e clericale della società, giudicato con straordinaria antiveggenza sovvertitore dei valori e alleato perfetto delle tirannidi. Antidoto a questa rovina è, secondo Machiavelli, una conoscenza non disgiunta dalla virtù e una virtù non disgiunta dalla conoscenza. Ma queste qualità sono assai rare, tanto più nel pieno evo cristiano.
Hobbes: un singolare machiavelliano d’oltremanica
Pure Hobbes, filosofo inglese vissuto circa cent’anni dopo Machiavelli, parte da assunti teorici radicalmente anti-cristiani. Nonostante ciò, il suo (machiavelliano) pragmatismo lo condusse ad appoggiare la dinastia Stuarda in anni in cui essa saldava maggiormente trono e altare e si macchiava di gravi persecuzioni a danno dei Puritani. Quella che, però, Hobbes difendeva contro agli oltranzisti Puritani, non era certo la Verità, la retta fede: era bensì una religio intesa come instrumentum regni.
Ecco, dunque, il capovolgimento del laicismo di Machiavelli contestuale al suo accoglimento in sede teorica: per Hobbes l’impianto confessionale dello stato non è certo la manifestazione di un ordine divino; è bensì un tentativo tutto umano di fare ordine in quello «stato di natura» creato non certo da un Padre Buono. Hobbes, infatti, definisce la Natura ancor più che come caos, come stato di truculenta guerra, di terrore, ove regnano le malattie e la morte; l’uomo avrebbe, in questa situazione, come unica ancora di salvezza, il tentare di opporsi alla ria Natura; il tentare una via che vada contro l’ordine/disordine naturale: quella della società, dello Stato.
Ma poiché, per Hobbes come e forse più che per Machiavelli, l’uomo è, in quanto egli stesso «Natura», cattivo, incline al male e alla sopraffazione, la soluzione dev’essere estrema: ogni individuo deve farsi violenza e rinunziare alla propria libertà (che è in definitiva libertà di fare il male), consegnandola a un sovrano, a un tiranno, a un «Leviatano» che garantisca per quanto possibile la pace. Ecco dunque che l’unica forma di stato possibile è la monarchia assoluta, non fondata però su leggende e volontà divine, bensì su una convenzione, su un contratto sociale; ecco dunque, compiuto, lo Stato moderno.
Riflessioni recenti sullo stato moderno e loro limiti
Più di recente (fra ‘800, ‘900 e III millennio) i dibattiti storici e filosofici sulla natura dello stato moderno si sono riaperti. È qui impossibile darne conto compiutamente o anche solo accennare alla vastità della questione: basti ricordare il modello teorico di Max Weber, che identifica lo stato moderno col trionfo dell’accentramento dei poteri nelle mani di un sovrano il cui potere non è però più magico-sacrale, ma razionale-legale. Si badi però che, tanto l’accentramento dei poteri quanto la percezione di un potere razionale-legale, non sono caratteri storicamente attestati in maniera coerente durante la (cosiddetta) «età moderna» (1500-1850 circa).
Durante questo periodo, resistenze all’unitarietà legislativa, fiscale e in generale statuale si verificano anche in contesti che potremmo pensare saldamente centralistici (come la Spagna, per nulla monolitica, o la Francia, quasi altrettanto frammentaria); la storia delle campagne, inoltre, è tutt’altra da quella delle città. E proprio negli ambienti contadini spesso mancava, laddove ci fosse una qualche percezione di un’entità statale definita, una concezione razionale-legale del potere: questo, nella persona del re o delle più o meno alte emanazioni religiose o laiche, era ancora inteso in senso carismatico, quasi magico. Quella weberiana, dunque, piuttosto che una descrizione statica di un complesso di rapporti, è l’esito finale di un moto che ha le sue origini nelle teorizzazioni del Machiavelli e dell’Hobbes, ma che terminerà in Europa solo fra ‘800 e ‘900.
Andrea Monti per Questione Civile
Bibliografia
M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, Torino, 2019
M. Ciliberto, Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari, 2008
M. Ciliberto, Rinascimento, Ed. Scuola Normale Superiore di Pisa, 2016
M. Ciliberto. Italia laica. La costruzione delle libertà del moderni, Storia e Letteratura, Roma, 2012
M. Ciliberto. Niccolò Machiavelli. Ragione e Pazzia, Laterza, Roma-Bari, 2019
G. Dall’Olio, Storia moderna. I temi e le fonti, Carocci, Roma, 2017
C. Galli, Il pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 2017
T. Hobbes (a cura di R. Santi), Leviatano. Testo italiano, inglese, latino. Edizione mutilingue, Bompiani, Milano,2001
N. Machiavelli (a cura di G. Sasso e G. Inglese), Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, BUR, Milano, 1984
N. Machiavelli (a cura di R. Ruggiero), Il principe, BUR, Milano, 2008
M. Weber, Economia e società. L’economia, gli ordinamenti e i poteri sociali, Donzelli, Roma, 2022