Un’analisi sul giornalismo odierno e sul caso che ha portato alla luce molte sue zone d’ombra: la Blue Whale Challenge
Il Blue Whale è il fenomeno mediatico che ha sconvolto e monopolizzato l’attenzione di tutti i mass media nel 2017. Ma cosa c’è da sapere sul conturbante caso?
Cos’è il Blue Whale?
Il termine “blue whale” tradotto letteralmente “balena azzurra”, sta ad indicare il comportamento apparentemente immotivato di spiaggiamento e di conseguente morte delle balenottere. Generalmente, a scegliere questo tipo di morte sono i cetacei che si perdono e non riescono a ritornare nel gruppo. I biologi hanno inoltre riscontrato che il fenomeno riguarda spesso gruppi interi di balene, in quanto capita che l’intero branco smarrisca la via. In alternativa, nel tentativo di soccorrere un singolo in difficoltà, altri esemplari incappano nello stesso pericolo. Parliamo quindi di un fenomeno di massa, un dettaglio profondamente simbolico, nel caso che andiamo a trattare. Tale, infatti, è il nome dato al “gioco” che, nel 2017 e parte del 2018, ha gettato un’ombra di terrore e di sgomento sulle masse, in Europa.
Nella teoria, il gioco online consiste nll’attuare 50 prove o sfide, come “preparazione alla morte”, che si concretizza con il gesto ultimo di lanciarsi nel vuoto da una grande altezza. Queste regole quotidiane sono caratterizzate da gesti conturbanti e insani: si spazia dall’autolesionismo, come incidersi la pelle o tentare di tagliarsi le vene con lamette, al guardare film dell’orrore per 24 ore continuative, o all’ascoltare una particolare musica con video psichedelici, senza dormire.
Come mai il Blue Whale è diventato tanto famoso?
Secondo le ipotesi più accreditate, l’ideatore del “gioco della morte” è stato Philip Budeikin, uno studente di Psicologia russo, al tempo di 21 anni e recluso in carcere per i reati commessi. Il suo profilo sembrava avvicinarsi molto a quello di un serial killer. Budeiken ha infatti confessato di aver istigato almeno 17 adolescenti connazionali al suicidio per “purificare la società”. Il ragazzo, ad ogni modo, non ha mai mostrato alcun pentimento per aver attratto con l’inganno su Vk, un social network al tempo in voga in Russia, decine di giovanissimi e averli spinti ad accettare la tremenda sfida social. Dall’arresto e dalla diffusione della notizia, la macabra pratica si diffuse a macchia d’olio, facendo di Budeikin l’ideatore morale di quello che poi sarebbe diventato “Blue Whale”: dalla Russia, al Brasile, alla Francia, l’Inghilterra, e infine l’Italia.
L’argomento è stato reso noto dalle reti italiane dall’amato programma “Le Iene” di Matteo Viviani: il giornalista si è addentrato in Russia e ha parlato con i genitori di alcuni ragazzi morti suicidi, menzionando un gioco chiamato “Blue Whale”. È arrivato poi in Italia, a Livorno, dove, recentemente, un quindicenne si era tolto la vita lanciandosi da un palazzo di ventisei piani per seguire le regole del gioco. Da quel momento in poi, la strada per gli emulatori è stata tutta in discesa.
La nascita del fenomeno mediatico e la fascinazione dei giornalisti per l’inquietante Blue Whale Challenge
Quando il “Blue Whale” sia diventato la “Blue Whale Challenge”, al paro della moltitudine di challenge adolescenziali che popolano il web, non è chiaro.
Eppure, un dato di fatto spiacevole è che, in seguito al servizio de “Le Iene”, e in generale delle prime notizie apparse sui giornali web e non a riguardo, la challenge ha iniziato a diffondersi esponenzialmente in Italia. Ma il dettaglio più grave in tale spasmodica diffusione, è il fatto che nessuna delle notizie riguardanti il Blue Whale fosse dimostrata e sostenuta da dati certi, da fonti autorevoli e affidabili. In poche parole, non si trattava altro che di congetture, supposizioni ingrandite ed esagerate da qualche pizzico di interesse e fascinazione verso il macabro.
Secondo la conoscenza comune che si ha tutt’ora sul fenomeno, dietro a questa Blue Whale Challenge si nascondevano persone in grado di manipolare la mente dei più giovani fruitori di internet. Tali manipolatori si facevano chiamare “curatori” o “tutor”, nonché coloro che creavano o dettavano le regole del gioco. Le famose 50 regole, scandite in 50 giorni, che avrebbero portato molti adolescenti a togliersi lentamente la vita nel 2017, hanno intrigato enormemente i giornalisti e i lettori/spettatori di tale fermento mediatico. Il risultato di tutto ciò era prevedibile, ma non fino a tal punto: i redattori hanno continuato ad infarcire le notizie riguardanti i suicidi di creative congetture sul Blue Whale, mentre i più giovani e influenzabili fruitori di tali notizie hanno deciso di sperimentare il gioco sulla propria pelle. Una reazione a catena spaventosa e irrefrenabile, che al tempo non è stata intercettata, né analizzata nella maniera giusta.
Il fallimento nella narrazione dei giornali più importanti e letti d’Italia: “La Stampa”
Da “La Repubblica” a “Il Sole 24 Ore”, da “Il Messaggero” a “Il Fatto Quotidiano”, dal “Corriere della Sera” fino ad arrivare persino al sito di “Save the Children”. Testate, riviste, giornali stampa e web, dalle fonti più disparate, nel 2017 ci fu un’esplosione senza controllo di notizie riguardanti lo “strano” gioco del Blue Whale. Come già accennato, il risultato, giustamente, fu un’incontrollata psicosi collettiva. Una delle testate più vendute e accreditate che fomentò maggiormente il clamore, associando molti suicidi al gioco del Blue Whale, è stata “La Stampa”:
«Blue Whale, costrinse sui social una minorenne di Palermo a farsi tagli sul corpo: condannata a 1 anno e mezzo»
«Una ragazzina vittima del Blue Whale confessa gli abusi agli amici: il patrigno finisce in carcere»
«Blue Whale, prove di coraggio e autolesionismo online: pm di Milano chiede processo per 20enne»
«Blue Whale, ragazza milanese indagata per istigazione al suicidio»
«Tagli sulle braccia, la salvano gli amici: “È un rito suicida”, sospetto caso di Blue Whale»
«Blue Whale a Savona, tre studenti coinvolti»
«La “White Whale” contro la “Blue Whale”: i 50 gradini per la felicità»
Questi sono solo alcuni dei titoli di pezzi usciti tra il 2017 e il 2018, riguardanti il Blue Whale, su “La Stampa”.
Vi sono anche diversi giornali e siti che pubblicarono le più svariate guide per i genitori, come i “10 consigli per affrontare il Blue Whale”. Per quanto non con intenti negativi, anche articoli di questo tipo hanno contribuito a diffondere maggiormente la “leggenda” del disturbante gioco mortale, tanto chiacchierato. Tuttavia, i peggiori sono sicuramente i siti web che, nel parlare del Blue Whale, hanno pubblicato anche una possibile lista delle fantomatiche 50 sfide da superare per partecipare al gioco, elencandole una per una. Cinquanta regole che istigano all’autolesionismo e al suicidio, a disposizione di tutti, anche dei soggetti più fragili e manipolabili, solo per soddisfare un’insana curiosità.
Eppure, ancora oggi, non sappiamo se il Blue Whale sia esistito davvero o no, né tanto meno se sia partito tutto dai reati commessi da Budeikin.
Conclusioni
Ultimamente stiamo sempre più spesso assistendo alla narrazione errata che le testate, anche le più importanti, stanno proponendo di alcuni eventi di attualità. Il caso del Blue Whale non è stato certo l’unico che ha portato a galla la profonda pericolosità che si nasconde dietro le “notizie infarcite”, o meglio, spesso dietro le vere e proprie “fake news”. Ma, soprattutto, anche ammesso che una notizia sia del tutto vera e dimostrabile, il parlarne in maniera tanto ossessiva e frequente, rende i lettori molto sensibili sull’argomento. Parlare continuamente e solo di un dato evento, diffondendo un clima di preoccupazione e terrore esasperante, come è accaduto anche col covid, porta al diffondersi di psicosi. O peggio, come nel caso del Blue Whale, crea degli emulatori a macchia d’olio, spingendo le menti più giovani al desiderio di parlarne, e talvolta suscitando la curiosità di provare.
I giornalisti farebbero sempre bene a ricordare l’enorme potere che hanno tra le mani, e a pensare al metodo più appropriato per utilizzarlo.
Al tempo del Blue Whale, i più non riuscivano a spiegarsi come mai un banale gioco potesse istigare un essere umano dotato di razionalità a togliersi la vita. Per spiegare tale tendenza, i giornali alimentarono la credenza comune che i ragazzi che iniziavano la sfida finissero in un turbine di cieca dipendenza, in grado di spingerli a compiere gesti folli come il suicidio. Che fosse vero o no, i ragazzi che leggevano ciò, e che decidevano di sottoporsi al gioco, ci credevano davvero.
Alice Gaglio per Questione Civile
Sitografia:
www.avvenire.it