L’attuale esecutivo ha in mente un progetto di riforma costituzionale in senso presidenziale, ma il punto di mediazione con le opposizioni potrebbe essere il premierato
La proposta del governo Meloni di una riforma costituzionale è stata accolta in maniera diversa dalle opposizioni: Azione e Italia Viva si sono dette disponibili al dialogo per arrivare ad una forma di premierato riassunta nell’espressione Sindaco d’Italia; più freddi sono stati i toni del Pd e dei 5 stelle che vedono in questa riforma un tentativo surrettizio di accentramento del potere.
La riforma costituzionale, una lunga ipotesi di cambiamento
Andando indietro nel tempo, si può ben vedere come dal 1948, anno in cui è entrata in vigore la Costituzione italiana, fino al 1983, quando la commissione Bozzi presentò 9 proposte di cambiamento della Carta fondamentale, il cambiamento della Costituzione non sia stato preso in considerazione. Il progetto si arenò e in seguito andarono male anche i tentativi della commissione De Mita-Iotti nel 1992 e quello di D’Alema nel 1997. L’ultimo tentativo fu fatto dal governo Renzi nel 2016, ma anche questo si risolse in un nulla di fatto in seguito alla bocciatura referendaria che ha causato le dimissioni dell’allora Presidente del Consiglio.
Come si è visto, i tentativi ci sono stati, ma nessuno di questi ha prodotto dei risultati concreti. Alcune riforme erano viste come troppo organiche, altre troppo particolari. Il sugo della storia è che la Carta non si è cambiata, vuoi per un sistema irriformabile che tanto più è irriformabile tanto meno riesce a trovare una proposta di cambiamento al suo interno, vuoi per un serpeggiante sentimento conservatore della società italiana che potrebbe ritenere la Costituzione vecchia, ma tutto sommato alla fine ha un sistema di bilanciamento dei poteri che è uno dei migliori del mondo, quindi non avverte un motivo veramente valido per cambiarla.
Perché fare la riforma?
La domanda, quindi, è lecita: perché è proprio dagli anni ’80 che si prova a fare una riforma costituzionale, ma non ci si riesce? Lo stragismo degli anni ’70, le componenti anarchiche, il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, tutto questo ha gettato un’ombra sulla classe politica, un sentimento di scollamento tra istituzioni e cittadini, una disaffezione che si palesa alle elezioni nazionali del 1978: i votanti calano di 4 milioni e a distanza di 7 giorni, alle elezioni europee, vota il 5% in meno della settimana prima. L’affluenza alle elezioni crolla e si sente la necessità di ripristinare il legame tra i due mondi che dopo le convergenze parallele rischiano di prendere strade diverse fino a non toccarsi. Le riforme hanno in comune un tema di fondo: cercare di trovare una giusta misura tra la rappresentatività e la governabilità.
Il problema che ci si pone è cercare di avere un parlamento che sia quanto più rappresentativo possibile della cittadinanza e capace di dare vita ad un governo che possa durare per l’intera legislatura (fatto abbastanza atipico in Italia): dal 1946 ad oggi ci sono stati 68 governi. Si è provato a rimediare con i referendum del 1991 e del 1993 che hanno eliminato i voti di preferenza per via del pericolo del voto di scambio e hanno provato a dare una tendenza maggioritaria al sistema elettorale. L’eterogenesi dei fini si palesa nel momento in cui questo sistema ha garantito una stabilità politica nei comuni, dove il sindaco può contare su una forte maggioranza di norma, ma a livello nazionale tutto è rimasto più o meno come prima: alternanza si è data tra Berlusconi e Prodi, ma la stabilità politica no.
Il tentativo di riforma costituzionale di Meloni
Il governo Meloni, questa volta, prova a modificare la Costituzione in senso presidenzialista, dotando il Presidente del Consiglio di più poteri, divenendo il capo dello Stato e il capo del governo. Questo presidenzialismo sarà accompagnato ovviamente da una futura legge elettorale che al momento è in cantiere, ma che dovrebbe essere di tipo maggioritario. In questo modo si risponde all’esigenza di avere un risultato netto il giorno dopo le elezioni e di avere un governo stabile che duri per tutta la legislatura. Le proposte sono in divenire, non esiste ancora il progetto completo. A non esistere è anche la Costituzione perfetta. Essa è espressione della storia di una nazione, di uno Stato.
La Costituzione italiana, ad esempio, prevede un sistema bilanciato di poteri tra esecutivo, giudiziario e legislativo (quest’ultimo è però il perno dell’intero sistema), il Presidente della Repubblica esercita una funzione di garanzia delle istituzioni, ma rimane super partes. Non esiste una formula giusta o sbagliata, esiste la Costituzione che più si avvicina all’identità di una nazione. I padri costituenti hanno redatto questo tipo di Costituzione perché essa era ed è espressione dell’antifascismo, si voleva e si è ottenuto un sistema resistente al possibile e non auspicato ritorno di un novello capo assoluto.
Questo è il motivo per cui il Presidente della Repubblica (che ha sostituito il re) rimane in carica per sette anni, mentre il Presidente del Consiglio per cinque. Ciò non deve precludere ad un possibile cambio di paradigma all’interno del sistema repubblicano-democratico, ma si auspica che le riforme che verranno fatte in futuro mantengano i principi di rappresentatività, governabilità e democraticità.
Alessandro Villari per Questione Civile
Sitografia e bibliografia
www.repubblica.it
U. Gentiloni-Silveri, Storia dell’Italia contemporanea 1943-2019. Il Mulino, Bologna, 2019.
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