La scuola non insegna l’umanità: ecco perché educhiamo ragazzi sempre più violenti e soli
È stato definito un «affondo» quello di Dacia Maraini al sistema educativo italiano, quello in una sua intervista per La Repubblica. Eppure, nelle sue parole di intellettuale, sta la fotografia della scuola in Italia oggi. Ne torniamo a parlare, visto che dalla madre finlandese in Sicilia (clicca qui per leggere) ai ministri di ogni tipo, tutti, ormai, mettono bocca sul nostro sistema d’istruzione. Per una volta che ne parla una donna di cultura, vediamo cosa ha da dirci, e perché desta tanto scalpore.
Per la scrittrice, viviamo in un’epoca di profondo degrado culturale, in cui la scuola ha abdicato al ruolo di educatrice, anche dal punto di vista dell’affettività, della sessualità e, per fare un discorso ancora più generalizzato, dell’umanesimo.
Sono parole di un’attualità disarmante, visti gli episodi di violenza (anche sessuale) di cui recentemente sono stati protagonisti alcuni giovani – anche minorenni – del nostro Paese.
Ed è così, almeno a partire dal decurtamento delle ore di italiano della ministra Gelmini. Cosa c’entra questo con l’educazione all’introspezione emotiva e umana? C’entra nella misura in cui, pur nata dall’elitaria ideologia gentiliana, la scuola italiana (con la preminenza di materie letterarie – umanistiche, appunto – quali lettere, storia, filosofia e persino religione!) si ispirava all’Umanesimo e ai suoi valori fondanti, che erano anche quelli della nazione risorgimentale. Quell’humanitas che, scevra degli anacronismi mussoliniani successivi, aveva ispirato la penna di Mazzini, e, andando a ritroso, della Chiesa (quando non si macchiava le mani nel tumulto della Storia), degli uomini rinascimentali, dello stesso Terenzio e degli Scipioni.
Cum-petere: “andare insieme” o andare da soli?
Abbiamo rinunciato a quella formazione, prettamente umanistica, perché “inutile” oggigiorno, con il mondo ipercompetitivo in cui viviamo. Un mondo in cui competizione fa rima con competenza: non a caso, due parole che hanno la medesima origine.
La denuncia di molti pedagogisti e intellettuali è da tempo su tutti i giornali e i blog: il preside è diventato il dirigente, l’allievo è utente, il bidello è un perbenista collaboratore scolastico, e scuola è diventata sinonimo di “ricorso”, “performance”, “piano dell’offerta formativa”, “diplomificio”. Insomma, un’azienda.
Tra poco il dirigente sarà CEO, l’alunna sarà cliente (affezionata), il collaboratore sarà consulente o partner. Il fine? L’utile. E nell’utile non c’è posto per il preside, entità umana che presiede il “corpo” docenti (un nome che rimanda all’anatomia umana), per l’allievo o l’alunna, entrambe parole che hanno a che vedere con l’”allevare”, col “crescere”. C’è solo posto per matricole, PCTO, POF, ASL, e sigle che depersonalizzano l’esperienza tutta umana che dovrebbe essere la scuola.
Lingue e linguaggi nella scuola moderna
A che serve studiare le lettere, cioè il prodotto dell’uomo, del suo pensiero, della sua storia, se l’urgenza dei dirigenti è quella di mantenere gli “iscritti” (come fosse un canale YouTube), con attività sempre più accattivanti e à la page? Ed ecco che fioccano corsi di: robotica, informatica applicata, ingegneria elettronica, russo o giapponese (solo la lingua e l’”addestramento” per l’”utile” certificazione linguistica: niente civiltà o letteratura), e a farne le spese sono i nostri ragazzi: entreranno bambini e bambine alle prese con la muta vocale e con il menarca, uscendo con in mano la patente e la tessera elettorale, ma cittadine e cittadini poveri di spirito e ignari della profonda condizione dell’umano.
Sapranno parlare un inglese (importantissimo) da C1, saper “parlare” i linguaggi informatici più avanzati (programmare con Python et similia), ma non avranno gli strumenti emotivi per esprimere ciò che sentono.
E non c’è lingua straniera e internazionale o linguaggio che possa sostituirsi a un cuore pulsante da secoli.
L’utilità nella scuola italiana
Tagliare le ore di italiano, togliere del tutto il latino, è la soluzione per avere una generazione di adulti competenti e competitivi (dunque, performativi e “utili” alla società), ma nel corpo di bambini con la voce grossa e bambine fertili.
Per concludere, la filosofa Agnes Heller, nel suo libello Solo se sono libera, diceva:
«Se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: “prima di tutto, solo cose “inutili”, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita”. Il bello è che così, all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose».
Riccardo Stigliano per Questione Civile
Sitografia:
www.larepubblica.it
www.orizzontescuola.it
www.corrieredellasera.it
“Le immagini appartengono ai legittimi proprietari. Utilizzo delle immagini divulgativo e non commerciale”