I mass media ci propongono una particolare visione della morte, dell’omicidio, del suicidio e in particolar modo della figura dell’assassino. Per quale motivo?
L’industria cinematografica e quella musicale ultimamente stanno puntando molto sul ritrarre il profilo di un personaggio come l’assassino, il killer o serial killer. Un fatto di cronaca quale può essere un omicidio o un suicidio viene analizzato ed esasperato allo sfinimento; spesso esaltando la figura del carnefice al pari di un personaggio leggendario.
Il fascino del delitto e dell’ingiustizia di una morte prematura
Per capire la natura del quesito sarebbe opportuno porsi prima una domanda: per quale motivo siamo affascinati dai delitti, dalle morti ingiuste, da tutto ciò che può riguardare un omicidio o un suicidio? È la paura della morte che si fa avanti, o è qualcosa di diverso?
La psicologia può sicuramente venirci in aiuto, ma non può rispondere a tutte le domande che una considerazione simile può far scaturire. Il seguente articolo mira a fornire un oggettivo quadro generale sulla direzione presa dai mezzi di comunicazione di massa, e dall’industria cinematografica in particolare, riguardo la conturbante tematica. Per farlo, verranno analizzati tre esempi diversi tra loro.
Il caso Skynd e la “musica criminale”: una poetica creata sulle citazioni di carnefici e assassini
“Go, in your truck and drive in a parking lot
Do it early, do it now
It will take twenty minutes […]
Generator in your car
CO2 in your lungs
You won’t feel a thing […]
I love you, now die”
Citando il testo di una delle canzoni della cantante Skynd, intitolata “Michelle Carter”, prendiamo in considerazione il genere della “musica criminale”. Chi è informato sul caso Michelle Carter, avrà sicuramente sentito la frase “I love you, now die”. Si tratta del titolo del documentario dedicato al famosissimo caso di cronaca nera che vede protagonista la succitata; nonché la più famosa citazione associata alla Carter stessa. Un altro caso su cui, di recente, è uscito un biopic.
Chi è Michelle Carter?
Michelle Carter è una giovane ragazza che, nel 2014, ha volontariamente provocato e incoraggiato il suicidio del suo fidanzato, Conrad Roy, tramite ossessionanti e manipolatori messaggi di testo. Il caso di Michelle è divenuto incredibilmente noto negli Stati Uniti, specialmente perché, per la prima volta, ha fatto sorgere una domanda: un atteggiamento di pressione psicologica e assistenza al suicidio può considerarsi un assassinio, dunque omicidio colposo, ed essere perseguibile dalla legge come tale? O più semplicemente: incitare al suicidio fa di te un assassino? Non a caso, a processo, la ragazza è stata accusata di “involuntary manslaughter”, e poi condannata.
E mentre l’America si divideva in due, chiedendosi se Michelle Carter fosse una spietata assassina o una ragazzina sociopatica con disturbi psichici, la cantante Skynd ha colto la palla al balzo: i messaggi che Michelle mandava a Conrad sono stati letteralmente presi e trasformati nel testo di una conturbante canzone. Nessuna rielaborazione, nessun brano ispirato, no, solo il tremendo contenuto dei messaggi cantato su una base melodica: “Vai nel tuo camion e guida in un parcheggio, ci vorranno venti minuti”, “CO2 nei polmoni, non sentirai nulla”.
La band di cui Skynd fa parte viene descritta come una delle fondatrici del genere della “musica criminale”, caratterizzata da canzoni macabre, basate su morti e omicidi inquietanti. Alcuni tra gli altri titoli delle loro canzoni sono “Jim Jones”, “Gary Heidnik” e “Katherine Knight”, tutti nomi rigorosamente di carnefici.
Il caso dei biopic sugli assassini seriali: “Monster: The Jeffrey Dahmer Story”, una spettacolarizzazione mascherata
Il serial killer Jeffrey Dahmer non ha bisogno di presentazioni, né ne ha la recentissima serie tv a lui ispirata. Jeffrey Dahmer fu un serial killer che tra gli anni ’80 e ’90 seminò il panico, uccidendo, sviscerando e mangiando ben diciassette giovani uomini.
In questo caso, Ryan Murphy ha partorito l’idea di un biopic estremamente veritiero, che ripercorre l’intera vita di Jeffrey Dahmer, dalla nascita alla morte. Le motivazioni dietro tale scelta sono state varie, come spiegato dal regista stesso, e le sue intenzioni sembrano essere nobili. Eppure, la serie tv, inevitabilmente, è un viaggio che ci mostra tutto ciò che riguarda il serial killer in questione, aspetti indubbiamente negativi, ma anche traumi e caratteristiche umane. L’immedesimazione e l’empatizzazione col carnefice è naturale in tal caso, e il rischio che si corre è quello di far “affezionare” troppo lo spettatore al personaggio in questione. In casi estremi, come ci insegnano le corrispondenze epistolari che Dahmer intratteneva dal carcere, può addirittura creare una vera e propria fanbase dell’assassino, che diventa automaticamente una figura leggendaria.
L’intenzione di Ryan Murphy, in questo noto caso specifico, era quella di ricordare le vittime del “mostro di Milwaukee”, di donare loro un’umanità e un riconoscimento che non hanno mai avuto. Il tentativo è stato notevole; ma lo sono state, al contempo, anche le legittime accuse di voler lucrare su una tragedia simile, mosse dalle famiglie dei ragazzi uccisi.
Dunque, la serie tv su Dahmer (che si vocifera possa diventare un’antologia) è riuscita a rendere onore alle vittime? O è stata solo un modo per capitalizzare una tragedia e spettacolarizzare le gesta di un assassino? Qualunque sia la risposta, è indubbio che la visione del biopic abbia fatto rivivere un trauma inconcepibile agli affetti dei ragazzi brutalmente uccisi da Jeffrey Dahmer.
Il caso Blue Whale
Si è già parlato del caso Blue Whale in precedenza, ma, in tale contesto, la tematica merita un approfondimento necessario. Come già spiegato nell’articolo dedicato (clicca qui), il Blue Whale era un gioco online che consisteva nell’attuazione di 50 prove come “preparazione alla morte”, al termine delle quali era previsto il gesto ultimo di suicidarsi. L’invenzione del “gioco della morte” venne attribuita a Philip Budeikin, studente di Psicologia russo, il quale spiegò di aver istigato alcuni adolescenti al suicidio per “purificare la società”.
Nell’anno 2017 il Blue Whale divenne uno dei fenomeni mediatici più controversi degli ultimi tempi. L’esasperazione che i giornali e la tv utilizzarono nel parlarne, diede il via ad un effetto domino direttamente proporzionale: più se ne parlava, più i casi di Blue Whale aumentavano a dismisura. L’ossessiva importanza che venne data alla notizia, unita alla macabra aura di mistero che avvolgeva il conturbante gioco, contribuirono esponenzialmente ad indurre molti adolescenti a provare curiosità e desiderio di emulazione. Oltre che a terrorizzare l’Europa.
I media e l’esasperazione di un assassino invisibile e imprevedibile
In questo ultimo esempio non è stato l’assassino, o meglio il papabile inventore del gioco, a venire spettacolarizzato o romanzato; bensì il gioco mortale stesso, e i suicidi da esso provocati. Ciò diversifica il caso Blue Whale dai due precedentemente trattati. Eppure, la dannosa narrazione che ne è stata fatta dai media e che ne ha veicolato la comunicazione e la cultura di massa tanto spasmodicamente, li accomunano.
Nessuna canzone è stata scritta sul Blue Whale, né ne è mai stata fatta una serie tv ispirata; ciononostante decine di adolescenti hanno cercato nel web le 50 sfide da attuare, e molti di loro si sono sottoposti a loro volta alla challenge.
Per concludere, anche in questo caso, uno strumento tanto imponentemente coercitivo come la cultura e la comunicazione di massa è riuscito a smuovere le folle.
Alice Gaglio per Questione Civile
Bibliografia e sitografia
Erin Lee Carr, “I Love You, Now Die: The Commonwealth v. Michelle Carter”, HBO Documentary Films, 2019.
Skynd, Michelle Carter, self-released, 2021.
Ryan Murphy, Monster: The Jeffrey Dahmer, Prospect Films, 2022.
www.avvenire.it
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