La cultura orale nelle radici del folklore
Parlando di folklore o di cultura orale, nell’immaginario comune ricorrono subito scene di persone in festa o intorno a un focolare a raccontarsi storie antichissime. L’idea, cioè, è quella di elementi culturali ereditati dal passato, spesso ritenuti tal quali a come furono concepiti dai nostri antenati nella notte dei tempi.
È un’idea molto più diffusa di quanto si creda, e per rendersene conto basta pensare ai proverbi o alle fiabe popolari. Molti sarebbero pronti a scommettere, per esempio, che la storia di Cappuccetto Rosso sia sempre stata come la conosciamo, e resterebbero delusi dal sapere che in versioni meno note la bambina muore mangiata dal lupo.
In questo articolo, dunque, affrontiamo una questione fondamentale per capire cosa sia il folklore: le sue origini. È dall’oralità, infatti, che ha origine il folklore, ma questa origine porta con sé un certo numero di problemi. Infatti, la nostra idea di testi e tradizioni immutabili deve la sua fortuna alla cultura scritta di cui è impregnata la mentalità occidentale, ma come vedremo a breve le cose non sono sempre state così.
Le prime riflessioni sul tema si ritrovano già nell’antichità in alcuni scritti dello storico greco Diogene Laerzio, subendo però un’accelerazione soprattutto a partire dal Medioevo.
Cultura orale e cultura scritta: un cruccio già per Dante
La questione dei rapporti tra cultura orale e cultura scritta si è rafforzata nella coscienza europea negli ultimi sette secoli, sicuramente almeno fin dal Trecento, quando il letterato italiano Franco Sacchetti scrisse e pubblicò il suo Trecentonovelle. Si tratta di un’opera che, similmente al più celebre Decameron di Giovanni Boccaccio, sotto la forma di raccolta di novelle offre una preziosa testimonianza della società fiorentina di quel tempo. Di questa raccolta, particolarmente interessante per il nostro discorso è la novella 114, in cui leggiamo di un Dante Alighieri molto diverso dall’immagine del Sommo Poeta che ci siamo costruiti nel tempo.
Lo eccellentissimo poeta volgare, […] Dante Allighieri fiorentino, […] esce di casa, e avviasi per andare a fare la faccenda, e passando per porta San Piero, battendo ferro uno fabbro su la ‘ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare, e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando, che parea a Dante ricever di quello grandissima ingiuria. Non dice altro, se non che s’accosta alla bottega del fabbro; piglia Dante il martello e gettalo per la via, piglia le tenaglie e gettale per la via, piglia le bilance e gettale per la via, e così gittò molti ferramenti.
Intuiamo quindi che la colpa del fabbro è quella di aver rovinato l’arte di Dante, recitando in modo sbagliato i suoi versi, “come un cantare”. Il cantare era un componimento di argomento cavalleresco, di solito recitato oralmente e talvolta accompagnato da musica con una destinazione popolare.
La recitazione orale, tuttavia, poteva causare alcuni mutamenti in questi testi, che potevano quindi sviluppare numerose varianti nel corso del tempo. Dante, quindi, non gradisce che i propri scritti vengono storpiati e modificati come un cantare qualsiasi, e reagisce rovinando gli strumenti dell’arte del fabbro.
La cultura orale e l’autore “inesistente”
La novella di Sacchetti, che presumibilmente racconta un episodio di fantasia, è fondamentale perché segnala il passaggio da una mentalità orale a una mentalità scritta, da una cultura orale a una cultura scritta, in cui si richiede il rispetto del testo così com’è stato creato dall’autore. Oggi la salvaguardia e la ricostruzione dei testi originali sono affidate sia a discipline accademiche come la filologia, sia a istituti giuridici come il diritto d’autore, che però all’epoca di Dante e Sacchetti non esistevano.
La filologia e il diritto d’autore danno autorità al creatore di un’opera, gli garantiscono un alto status sociale e ne migliorano la condizione economica. Questo, però, è possibile solo in una società avvezza alla scrittura, mentre in una cultura orale è di fatto inconcepibile. Qui, infatti, l’autore spesso resta sconosciuto e il suo testo non ha alcuna autorevolezza, subendo continue modifiche: è quello che succede, appunto, ai cantari.
Dante quindi si infuria non per difendere i testi, ma per proteggere la propria condizione di poeta, affinché la sua gloria poetica non sia dimenticata. Rischio, questo, che effettivamente si concretizza nella novella 115 di Sacchetti, dove Dante, imbattutosi in un asinaio che recita male i suoi versi, redarguisce duramente lo sventurato. Tuttavia, quest’ultimo, a differenza del fabbro della novella precedente, non solo non riconosce Dante, ma neanche sa chi sia l’autore dei versi che stava recitando. Di conseguenza, si sente in diritto di ripeterli come meglio crede.
Per intenderci, basta pensare alla differenza tra la poesia Il cinque maggio di Alessandro Manzoni e la celebre filastrocca popolare Ambarabà ciccì coccò. La prima ha un autore noto con un testo ben preciso che tutti impariamo a memoria e che nessuno si sognerebbe di modificare; la seconda ha un’origine sconosciuta e ognuno la conosce in una variante diversa.
Cos’è una tradizione popolare?
Nel 1929, Pëtr Bogatyrëv e Roman Jakobson posero le basi per definire una tradizione popolare riprendendo un modello linguistico proposto dal linguista Ferdinand de Saussure. Tale modello distingueva tra due elementi.
- Langue – l’insieme dei segni che formano il codice di un idioma. È il sistema “in astratto”, una convenzione sociale che permette agli individui di una stessa comunità di comunicare tra loro: per esempio, la grammatica.
- Parole – l’atto concreto con cui il soggetto parlante realizza la propria facoltà del linguaggio. È l’esecuzione concreta del sistema astratto.
La lingua, quindi, è un chiaro esempio di tradizione popolare: nessuno, quando pronuncia una parola, si pone il problema di quale sia il suo autore o quale sia stata la forma originale di quella parola. Inoltre, una lingua può sicuramente essere cristallizzata in una forma scritta, ma essa nasce inizialmente per un uso orale ed è così che viene imparata.
Bogatyrëv e Jakobson ritenevano che il folklore funzionasse esattamente come la lingua: si ripetono oralmente cose già sentite oralmente, senza preoccuparsi di come fosse il testo la prima volta che lo si è sentito. Inoltre, secondo loro, un elemento, per essere tramandato, ha bisogno di una sanzione collettiva: cioè, deve essere accettato da una comunità.
Per esempio, se una fiaba è accettata da una comunità e ne ottiene la sanzione collettiva, sarà tramandata ad altri, altrimenti la sua trasmissione si interromperà. Anche nella lingua succede qualcosa di simile: parole percepite come antiquate possono perdere la sanzione collettiva, cadendo in disuso e finendo per essere dimenticate.
Si può quindi capire cosa sia una tradizione popolare pensando all’etimologia del termine: traditio, in latino, vuol dire trasmissione. Una tradizione popolare è dunque ciò che il popolo si è passato e trasmesso di generazione in generazione, oralmente.
La cultura orale e la memoria
A questo punto, è opportuno però specificare una cosa. Tutte le culture del mondo, quando nascono, si diffondono per trasmissione orale, ma soltanto una piccola parte di queste raggiunge la fase della scrittura. Questo, purtroppo, si traduce spesso in una perdita della memoria storica dell’esistenza e delle tradizioni di queste culture, che spariscono senza lasciare tracce.
Ma quali segni può lasciare una cultura per non essere dimenticata? A questa domanda, l’antropologo britannico Jack Goody risponde distinguendo tre possibili forme di patrimonio culturale:
- cultura materiale, cioè la trasmissione di oggetti;
- comportamenti, appresi per imitazione;
- credenze e valori, trasmessi col tramite della comunicazione orale faccia a faccia.
Tra queste tre forme sussistono delle differenze importanti. Infatti, mentre è possibile conservare un oggetto senza che questo subisca modifiche di qualsiasi tipo, conservare un ricordo o mantenere un comportamento è molto più complesso. La memoria umana tende, cioè, ad alterare i suoi contenuti nel corso del tempo, conservando ciò che è attualmente rilevante e rielaborando o eliminando del tutto cose secondarie. Prendendo in prestito un termine dalla biologia, si può dire che la memoria sia costantemente coinvolta in un processo omeostatico, volto a tenere in equilibrio ciò che serve con ciò che non serve più.
È stato proprio in risposta a questo problema che le culture orali hanno sviluppato le cosiddette mnemotecniche, cioè strategie per ricordare meglio un testo. L’eventuale presenza di ritmo, di metrica o di accompagnamento musicale risponde dunque all’esigenza di memorizzare meglio testi che non potevano in alcun modo essere modificati, come quelli giuridici o magico-religiosi che contengono formule fisse.
Invece, una cultura che produca lasciti materiali ha molte più probabilità di essere ricordata per ciò che è stata, senza subire alterazioni di alcun tipo.
I due esempi di Goody
Per capire il senso di questo discorso, prendiamo due esempi citati dallo stesso Goody. L’antropologo britannico racconta infatti il caso dei Tiv, un popolo stanziato tra Nigeria e Camerun in cui i rapporti sociali sono regolati dalle genealogie. Secondo il resoconto di Goody, quando in epoca coloniale gli amministratori britannici trascrissero tali genealogie, non poterono non notare forti incongruenze. Ciò accadde quando, decenni dopo le prime trascrizioni, i Tiv contestarono i dati raccolti dai britannici, sostenendone la falsità e fornendo nuovi alberi genealogici.
Ci vollero anni di studi per capire che le genealogie dei Tiv avevano solo una funzione strumentale: esse venivano, cioè, “aggiustate” per adattare la situazione politica attuale, basata su una serie di lignaggi ricostruiti fino a dodici generazioni, alle regole che loro stessi si erano dati. In altre parole, se un sovrano conquistava il trono in qualche modo, nelle dodici generazioni precedenti doveva esserci una qualche legittimazione per il suo potere. E questa convinzione portava a modificare, anche involontariamente, le genealogie.
Ma i Tiv non sono gli unici a comportarsi in questo modo. Goody attesta infatti un comportamento simile anche tra i Gonja del Ghana, il cui regno era organizzato in sette distretti. Ognuno di questi sette distretti, secondo il mito, era stato fondato da uno dei discendenti maschi di Sumaila Ndewura Jakpa, fondatore della dinastia dei Gonja.
Quando per ragioni politiche i distretti diventarono cinque, a Jakpa furono attribuiti non più sette discendenti maschi, ma cinque. Lo scopo era chiaro: a ogni distretto doveva continuare a corrispondere un solo discendente fondatore. Non era ammissibile che vi fossero due discendenti in più, o che questi avessero fondato un distretto destinato a essere inglobato in altri.
“Le virtù dell’analfabetismo”
Nell’introduzione citavamo Diogene Laerzio come uno dei primi a riflettere sul rapporto tra cultura orale e cultura scritta. Prima ancora di lui, però, Platone aveva duramente criticato la scrittura in uno dei suoi dialoghi più celebri, il Fedro. Può sembrare paradossale che un filosofo così prolifico critichi il mezzo che gli ha dato fama imperitura, ma il suo ragionamento segue una logica inappuntabile.
Per Platone, infatti, la scrittura permette sì di leggere e sapere cose di luoghi e tempi lontanissimi tra loro, ma impedisce di averne esperienza diretta. Un libro, per esempio, può dare tutte le informazioni richieste in modo esauriente, ma non permette un’interazione diretta. In una cultura orale, invece, basata sulla conversazione faccia a faccia, si instaurano relazioni umane, che danno all’interazione una profondità irraggiungibile nello scritto.
A tal proposito, l’antropologo statunitense William Bright scrive:
Noi che siamo alfabetizzati non possiamo gettare l’alfabetismo che è divenuto parte di noi; ma possiamo diventare consapevoli di quello che ci costa, e possiamo fare consapevoli sforzi per riprenderci alcune delle virtù dell’analfabetismo.
Quali siano queste virtù è presto detto. L’assenza di supporti scritti costringe a una maggiore attenzione e a una maggiore presenza nelle interazioni faccia a faccia. E, probabilmente, dà alle storie raccontate di notte intorno a un focolare quel misterioso fascino che la fredda oggettività della scrittura non può trasmettere.
Francesco Cositore per Questione Civile
Bibliografia
Bogatyrëv, P. & Jakobson, R. (1929). Die Folclore als eine besondere Form des Schaffens. Verzaneling van Opstellen door Oud-Leertingen en Befriende Vakgenooten, pp. 900-913.
Bright, W. & Sanga, G. (1982). Le virtù dell’analfabetismo. La Ricerca Folklorica, 5, pp. 15-19.
Danver, Steven L. (2015). Native Peoples of the World: An Encyclopedia of Groups, Cultures and Contemporary Issues. Routledge.
Goody, J. & Watt, I. (1963). The Consequences of Literacy. Comparative Studies in Society and History, 5(3), pp. 304-345.
Goody, J. (1968). The Myth of a State. The Journal of Modern African Studies, 6(4), pp. 461-473.
Pernicone, V. (a cura di) (1946). Franco Sacchetti. Il Trecentonovelle. Firenze, Sansoni.
Pucci, P. (a cura di) (1971). Platone. Opere complete. Bari, Laterza.
Sanga, G. (2020). La fiaba. Morfologia, antropologia e storia. Padova, CLEUP.