Come la poesia entra nella canzone italiana, seconda parte
Come promesso in quest’articolo, continueremo il discorso sul rapporto fra canzone pop e poesia. Si avanzerà cronologicamente, talché, se precedentemente ci si era mossi fra anni ‘70 e ‘80, ora verranno presentati alcuni casi posteriori agli anni ‘90.
Qual è il senso complessivo di quest’operazione? Quello di sottoporre al vaglio critico due tendenze: tanto quella «integrata» – diffusissima –, che non indugia a etichettare come «capolavori» i testi smielati o kitsch di una buona fetta di cantautorato nostrano e internazionale; quanto quella «apocalittica», secondo cui oggi non vi sarebbe poesia fuori dalle pagine dei libri che escono per le consuete collane editoriali e che, possibilmente, restano invenduti.
Alti, medi e bassi tra poesia e canzone
A questo proposito, va fatta una semplice precisazione che, taciuta o data per scontata, rischia di compromettere il pur minimo valore del quadro che si tenta di tracciare. In modo analogo a quanto accade nella letteratura convenzionalmente riconosciuta come tale, è possibile per non dire quasi certo che ogni autore abbia una produzione discontinua dal punto di vista qualitativo oltreché, va da sé, quantitativo.
Perfino il supremo Boccaccio, padre del Decameron, non è il noioso e pedante autore di una sfilza di poemi pseudo-cavallereschi che le case editrici popolari non si curano neanche più di pubblicare; così come il Verga che ha sferzato all’Italia unita uno fra i più poderosi «cazzotti letterari» mai visti, I Malavoglia, non è il sentimentale epigono decadente dei primi romanzetti. E ci sarebbero tanti altri esempi.
In ambito musicale, basti pensare ai Queen: chi negherebbe un ipotetico alloro a molti testi di A night at the Opera (in primis la tragica Bohemian Rhapsody; ma anche la straziante ‘39 o la divertente Lazying on a Sunday afternoon)? Ebbene, se anche concedessimo questo «alloro», non potremmo far altrettanto per molta produzione anni ‘80 della stessa band. Alcuni nomi? Radio Ga-ga, One vision o la forzosamente impegnata e in fin dei conti solo zuccherosa The Miracle (un grandissimo pezzo musicale ma un testo che è un «volemose bene» con pace, stop alla fame e altre amenità). E nondimeno dovremmo tornare a considerare l’alta qualità poetica (mai scissa da una sublime qualità musicale) dei Queen d’Innuendo, ultimo tragico e visionario album con Freddy Mercury vivo.
Tutto ciò per dire che, qualunque sia l’artista/poeta che consideriamo o che abbiamo considerato, il discorso deve sempre tener conto delle fluttuazioni, inevitabili, cui anche i grandissimi sono soggetti. Specialmente, questo discorso vale per i casi dell’articolo odierno.
Dolcissimo nietzschiano – L’elegia funebre di Dio
Uno degli autori più interessanti affermatosi dopo gli anni ‘80 è Zucchero «Sugar» Fornaciari. A differenza di Bennato e soprattutto del coevo Finardi, cantautori più «autori» che «cantanti», Zucchero sfoggia una voce potentissima e, oltreché riconoscibile all’istante (come invero vale anche per Finardi e Bennato), tecnicamente ineccepibile e inarrivabile anche ai mostri sacri del panorama internazionale: basti ricordare che le canzoni del cartone animato Spirit, cantate in originale da Brian Adams (nientemeno), si caricano, grazie al doppiaggio italiano di Zucchero, di un’insperato phatos tragico e maestoso che la versione inglese, pur eccellente, non riesce a trasmettere.
Ma elogiare Zucchero per la sua voce è facile. Veniamo ai testi. Al netto di qualche concessione «acchiappona» (Baila Morena ne è l’esempio perfetto) e poco sorvegliata, la scrittura di Zucchero si segnala per una profondità unica nel suo genere: è frequentissimo trovare nei brani di Fornaciari, saldamente legati, una tensione metafisica e spirituale – ma fieramente indipendente da ogni religione – e una carnalità legata e al piacere sessuale e, soprattutto, alle piccole magnifiche cose del piccolo e magnifico mondo dell’Appennino: piccole cose riaccolte, quindi, in quella prospettiva metafisica dai contorni panici che si diceva.
Un testo che brilla in tal senso è È un peccato morir. Molti ascoltatori hanno còlto (giustamente) la dolce elegia per il mondo «antico» e «ingenuo» dell’Appennino che muore e si disfà lasciando nel cuore della star internazionale che di lì è venuta un senso quasi di tradimento. Ma v’è di più. La canzone infatti si rivolge a un non meglio precisato tu, di cui sembra cantare a un tempo l’elegia funebre e l’inno di gloria (e le parole «gloria» e «morte» ricorrono ossessivamente). A un ascolto più attento, ci si rende conto che quel tu è Dio: il Dio nietzschianamente morto, cui nessuno si è curato di fare un epitaffio. Il tono del brano, compreso questo passaggio, si carica di un’ancor più profonda malinconia ma si vela pure di un’ineffabile ironia.
Sex, sugar, rock ‘n’roll
E, a proposito di Nietzsche, bisogna proprio dire che Zucchero non nasconde un’ammirazione assoluta per il «martellatore» della filosofia, tanto da citarlo a ogni pie’ sospinto (perfino in Baila Morena!) e da avergli intitolato un brano, Nietzsche, che interpreta in maniera semplice ma essenziale l’ultraomismo non come superomismo «eroico» e machistico fuori tempo massimo, bensì come connessione alla terra, come ritorno alle mani, ai piedi, al sesso, alla bionda bestia, che fa del pre-linguistico, del dionisiaco il proprio terreno di conquista e operatività. Tale anche, in soldoni, il senso complessivo di Con le mani.
Ancor più interessanti i testi di due canzoni per il resto interessantissime: Diamante e Miserere, l’ultima delle quali cantante originalmente insieme a Pavarotti. Miserere mette in scena la travagliata ricerca di una «gioia di vivere» che viene finta all’esterno mentre l’interiorità di EGO è gettata nello sconforto. Diamante, invece, si ricollega alla nostalgia per un piccolo mondo antico perduto: una possibilità di solidarietà che pare irrimediabilmente confinata alle spalle di chi scrive, che proietta in quest’irrecuperabile passato il tempo futuro («Impareremo a camminare»).
Il pastiche malinconico e spietato di Francesco Gabbani
Per Gabbani vale il motto:
«non mi avete visto arrivare».
Mai visto prima, è salito sul palco dell’Ariston come «nuova proposta» e ha travolto tutti con Amen, brano iconico e ironico (ma in modo «serio», in modo molto intelligente) che preannunciava il drammatico e profondissimo quanto all’apparenza baldanzoso e spensierato pastiche, giustamente vincitore della seguente edizione del festival sanremese, Occidentali’s karma. Calma, più che karma, è ciò che occorre per afferrare il senso di questo brano: e Gabbani, sapendo benissimo che la calma non è certo la virtù più diffusa, proprio per questo è riuscito a diffondere all’inverosimile la sua hit.
Si tratta, si parva (ma neanche così tanto parva) licet componere magnis, di un’operazione à la Il nome della rosa, strutturata in modo da risultare piacevole ai lettori (o ascoltatori) alla ricerca d’intrattenimento senza tralasciare di stupire a un livello assai profondi quanti invece propendano per un approccio più «disponibile».
Nel brano scorre una rapida successione. Di cosa? È questa la domanda, e la questione centrale. Una rapida successione di cose: cose disparate. Il corpo di Occidentali’s karma si presenta come un feed di un social network sottoposto a scrolling compulsivo: ogni gerarchia si perde, è tutto un miscuglio di frasi smozzicate – alcune che vorrebbero essere profonde, interrotte da altre stupidissime –, fulminee apparizioni destinate a scomparire in un attimo.
È un brain rot fatto canzone. È un divertissement che denuncia a che punto il divertissement possa risultare dannoso, possa piombarci nella confusione, in una bulimia da sovrastimolazione pseudo-informativa. E questa è, sì, la nemesis, il karma che si abbatte sulla società più libera, progredita e tecnologicamente sviluppata attaccandola con le sue proprie armi.
Così, rinchiusi «comodi» nella nostra «gabbia due per tre», ci mettiamo alla ricerca di «umanità virtuale, sex appeal», alla ricerca di un’uscita dalla «gabbia» attraverso la «gabbia» stessa.
Un’analisi di questa canzone e della produzione gabbaniana richiederebbe ben altro spazio. Mi limito a segnalare la suggestiva Frutta malinconia, candidata hit dell’estate 2024, dove aleggia potente (e a ciò contribuisce l’ottima scelta musicale del twist) la sensazione che il «bello» sia tutto alle spalle, recuperabile solo con un ballo sfrenato e disperato.
Dargen e le nuove tendenze della canzone italiana
Un ballo sfrenato, un’evasione dalla «gabbia» che abbia il sapore dell’anestesia, dello sballo, dell’oblio, dell’annullamento. Chiaramente sto parlando di un’altra hit sanremese il cui successo è inversamente proporzionale alla raggiunta comprensione del testo: Dove si balla di Dargen D’Amico.
«Ultimamente dormo sempre, anche se non sogno»: così è condensata in un verso – per altro metricamente ineccepibile, trattandosi di un alessandrino (e Dargen, assieme al suo team, si dimostra qui e altrove buon conoscitore delle regole della prosodia) – la condizione di una generazione, o meglio di un modo sempre più diffuso di sentire la vita. Una vita precaria, che si sa già «finita» (e «che brutta fine!») a quarant’anni (o anche prima): rapporti personali ridotti al minimo, incapacità di intrattenere relazioni durature («e sto anche vedendo una: sono già tre sere / per ora mangiamo insieme, ma promette bene») o di avere un benessere economico («e non puoi fare la storia se ti manca il cibo», con mirabile antanaclasi riferita a «storie», per prendere in giro le food-blogger).
Donde l’unico rifugio che ci tiene vivi: una musica sepolta, che tiriamo fuori per tirare avanti, una musica lontana che fa… (lo sapete). Ballare per distrarsi, distrarsi come unica risposta al quesito «Perché si vive?». Una depressione tanto distruttiva aleggia su un brano da discoteca.
Non parliamo poi di Onda alta, altra hit battezzata all’Ariston, in cui campeggia, tragico, il dramma delle migrazioni e dell’innocenza assassinata dall’infamia di un mondo che per vivere ha bisogno di uccidere. Ovviamente, però, cassa dritta e occhiali da sole. Si balla e si pensa, si balla e si muore. Grazie, Dargen.
L’ultima nota va riservata a una band di giovanissimi, i milanesi Vaeva. Al di là di un sound ben calibrato a servizio di una voce solista tecnicamente portentosa oltreché ben riconoscibile, ciò che stupisce in positivo è la qualità di alcuni testi. Un esempio? Etciù. Ogni giorno dura solo un etciù. Ancora, torna il tema della distrazione come preponderante ospite di una vita ridotta a un pigro e apatico scrolling (letterale ed esistenziale), dove manca la motivazione e per quanto si «provi di tutto» per uscire dalla gabbaniana «gabbia 2×3» nulla pare giovare.
«Ogni mia rivoluzione dura solo un e…tciù»: impotenza. Impotenza di una generazione messa «buona» dietro a uno schermo; una generazione che ormai, però, si è stancata di questa prigionia dorata, dalla quale l’evasione risulta difficile se non impossibile.
Andrea Monti per Questione Civile
Sitografia
Gary Taylor, Phil Symes, Queen: the Complete Illustrated Lyrics, Queen Production Ltd., UK, 2012
archivio.zucchero.it
www.testimania.com
www.rockit.it
www.musixmatch.com