Quel I maggio di sangue: la strage di Portella della Ginestra
Considerata la prima strage di mafia dell’Italia repubblicana, quella di Portella della Ginestra è una storia dolorosa. La storia di un giorno di festa divenuto lutto e dolore, di un incubo che avrebbe a lungo accompagnato il paese.
Un’Italia di rinnovata libertà
La guerra era finita da due anni. Il sole cocente che aveva guardato dal cielo il paese distrutto brillava ora su una terra da ricostruire. Era passato meno di un secolo dall’unità d’Italia, un secolo corso forse troppo veloce, tra guerre, dittature e dolore. Nemmeno un anno prima gli italiani, donne comprese, avevano scelto che forma dare al nuovo Stato.
Mancava ancora del tempo agli anni d’oro del boom economico, alla ricostruzione facilitata dalle fiorenti industrie. E ancor di più ne mancava nelle terre del sud, bollenti fin dalla primavera. Uomini, donne e bambini avrebbero presto cominciato a partire per le regioni del nord alla ricerca di un futuro diverso.
Ma c’era anche chi restava nelle zone natie, al lavoro dei padri. Le terre in cui lo Stato non era il solo detentore del potere, dei diritti su chi abitava. Un altro potere si accaniva e cresceva.
La fine della dittatura aveva riaperto il mondo politico. Le libertà di opinione e manifestazione del pensiero erano state tra le più grandi ritrovate conquiste del dopoguerra. Il Fascismo aveva smesso di essere il pensiero unico. A loro volta i movimenti socialisti e comunisti, così come quelli cattolici e democratici, avevano avuto modo di tornare allo scoperto.
Le elezioni erano divenute democratica, la libera scelta era il sale del nuovo Stato. Non più il listino unico, ora le schede elettorali si riempivano di modi di pensare e visioni del mondo differenti. Proprio nel 1947, d’altra parte, la Costituente stava svolgendo i suoi lavori, la preparazione del testo più importante del paese.
Al tavolo c’erano rappresentanze di tutte le forze politiche che quel paese l’avevano liberato e stavano ricostruendo. E così ovunque libere elezioni stavano cominciando a svolgersi, come quelle regionali che si erano celebrate il 20 aprile 1947.
Il I maggio tra Fascismo e Repubblica
Tra le soppressioni meno note del fascismo, dovute anche al valore diverso rispetto a quelle legate alle libertà, c’è la Festa dei Lavoratori. Chiunque sia nato dopo il 1945 potrebbe dar per scontato che il I maggio sia sempre stato il giorno prescelto per celebrare il lavoro e i lavoratori, ricordato in diverse parti del mondo. E in effetti, almeno in origine, anche in Italia era così.
Il I maggio è stato istituito come Festa dei Lavoratori nel nostro paese nel 1890. Tuttavia, in questi oltre cent’anni di festeggiamenti, ce ne sono venti in cui la data è stata spostata. Il Fascismo aveva infatti mosso la celebrazione del lavoro dal I maggio al 21 aprile, accorpandolo col Natale di Roma.
La fine della dittatura aveva comportato, tra le altre cose, anche il ritorno ai festeggiamenti del I maggio. Lo aveva fatto fin da subito, dalla fine della guerra nel 1945.
Il I maggio 1947 era quindi il terzo rinnovato appuntamento con la Festa dei Lavoratori. Se ancora oggi la giornata è spesso oggetto di discussioni sul suo valore politico, spesso additata come “di sinistra”, all’epoca lo era ancor più.
Soprattutto a Portella della Ginestra, nella piana degli Albanesi, provincia di Palermo. Appena dieci giorni prima il Blocco Popolare (PCI-PSI) aveva vinto le elezioni regionali. In oltre duemila si erano dati appuntamento il I maggio per festeggiare la vittoria e manifestare contro il latifondismo che ancora imperversava.
Una giornata di lotta e di festa, di celebrazione e di riflessioni, ecco cosa doveva essere quel I maggio. Una giornata in famiglia, perché tante erano quelle arrivate; non solo i lavoratori e le lavoratrici, anche molti bambini.
Erano previsti interventi di personalità importanti, tra cui il politico Girolamo Li Causi, sostituito all’ultimo da Giacomo Schirò, segretario di una sezione locale del PSI.
Portella della Ginestra: cosa accadde quel giorno?
Una festa, un momento di celebrazione. Ecco cosa doveva essere ed ecco perché a quegli scoppi che accompagnarono l’inizio del discorso di Schirò fu dato un altro significato. Forse petardi, qualche piccolo gioco pirotecnico. Qualche colpo che celebrava la giornata, che faceva sentire in tutta l’area l’eccitazione di chi partecipava.
Forse.
Poi pian piano la terra assolata su cui sostava la folla si sporcò di un rosso che nulla aveva a che fare con le bandiere. I corpi a terra, il sangue. Quegli scoppi ebbero un senso diverso. Erano armi da fuoco, erano il segno delle raffiche di mitra. In un momento la giornata si era trasformata, distrutto il clima leggero, la sensazione di libertà, la festa.
In un attimo il ritrovato I maggio era diventato dolore, sofferenza, lutto. Portella della Ginestra stava per passare drammaticamente alla storia come prima strage di mafia dell’Italia rinata dopo la guerra.
Undici morti. Undici corpi senza vita che giacciono là dove un attimo prima erano intenti ad ascoltare, a discutere. A giocare, forse. Perché tra quei corpi vi sono anche quelli di due bambini, usciti di casa una mattina di maggio e mai più tornati.
Accanto ai morti ci sono i feriti, a decine. Alcuni sono lievi, altri gravi e gravissimi. Diverse persone a seguito dell’attentato rimarranno invalide a vita. Una morirà otto mesi più tardi, aggiungendosi al conto dei deceduti di Portella della Ginestra.
Dalle colline sopra la spiana hanno sparato il bandito Salvatore Giuliano e i suoi uomini. Quella che si consuma il I maggio 1947 è una strage che alla fine, nonostante le ritrosie, verrà bollata come politica. Sembra il primo vagito di quella violenza che accompagnerà a lungo la storia d’Italia.
Anche altrove, anche per altre ragioni. Una violenza quasi endemica per un paese senza pace.
Portella della Ginestra: il processo
Dovettero passare tre anni per arrivare al processo per i fatti di Portella della Ginestra, che si celebrò lontano dalla Sicilia. Fu affidato al Tribunale di Viterbo nel 1950, quando Salvatore Giuliano era ormai morto.
Il decesso di Giuliano non fu però estraneo al processo. Fu proprio in quell’occasione che Gaspare Pisciotta si accusò dell’omicidio di Giuliano. Non si fermò lì, andando a citare alcuni deputati quali mandanti della strage, a riprova del suo valore politico. Tra questi anche Mario Scelba, futuro padre della legge che avrebbe introdotto il reato di apologia al Fascismo.
Molto prima delle stragi degli anni ’90 e della presunta – giuridicamente smentita- “trattativa Stato-Mafia” Pisciotta disse:
“Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa”.
Anche Pisciotta morì prima che il processo potesse dirsi concluso. In assenza di prove più esplicite sia la sentenza di primo grado che quella di appello attribuirono la strage al banditismo.
Lo stesso confermò la Commissione Parlamentare d’Inchiesta, non riuscendo mai a provare le connessioni sostenute da Pisciotta. Mancò quindi sempre, a livello giuridico, la dimostrazione di una connessione tra la strage di Portella della Ginestra e la politica.
Diverso però il rapporto con la Mafia, là dove è sempre stato noto che il banditismo sia stato alle spalle del fenomeno mafioso. Il ricordo di Portella della Ginestra è rimasto acceso negli anni, accompagnando ogni I maggio, mostrandone un’altra faccia.
La politica, il sindacalismo e la società civile celebrano ogni anno il ricordo di quelle vite spezzate, di quella festa divenuta dolore. Forse il primo trauma di un paese che si credeva destinato a un futuro migliore.
Francesca Romana Moretti per Questione Civile
Sitografia
- https://www.trapaniperilfuturo.org/
- https://www.antimafiaduemila.com/
- http://win.storiain.net
- https://www.wikimafia.it/
- https://www.rai.it/
- https://www.osservatoriorepressione.info/