Intervista alla giornalista Lisa Iotti
Lisa Iotti nasce a Reggio Emilia nel 1970 e dopo aver conseguito la laurea in Lettere Moderne a Bologna, inizia subito una lunga carriera da giornalista tra Tv e radio. Ha collaborato con Il Resto del Carlino, Teleraggio, la trasmissione Exit (La7) e il mensile FQ Millennium, oltre a molte altre testate ed emittenti tra la Rai e l’emittente privata Sky. È anche autrice di docufiction e di inchieste per Presadiretta su RaiTre per la quale realizza la puntata “Iperconnessi” con cui conquista il premio Goffredo Parise. È anche autrice per il Saggiatore, per cui nel 2020 pubblica 8 secondi, il libro sui risvolti positivi e negativi che la rete ha sul nostro cervello, che ispira gran parte di quest’intervista. Noemi Ronci, membro della Redazione Editoriale, l’ha intervistata per Questione Civile.
N.R. Uno degli imperativi dell’era digitale nella quale viviamo è quello delle immagini. La tendenza, soprattutto nel giornalismo, sembra essere quella di sostituire sempre più spesso l’iconografia e il video alle parole sperando di raggiungere una forma d’espressione più diretta, veloce e forse anche meno dispendiosa d’energie. Lei ne parla diffusamente nel libro 8 secondi soffermandosi molto sul fatto che per ogni facoltà o minuto di tempo guadagnato ce ne sono molte altre perse (penso a quella del ragionamento complesso, del linguaggio e così via). Quali sono secondo lei i maggiori costi intellettivi ed emotivi di questo nuovo sistema (penso anche agli studi di Maryanne Wolf) e quali le cose che, più o meno inconsciamente, siamo disposti a sacrificare maggiormente per la promessa di una vita più smart?
L. I. Innanzitutto, siamo disposti a sacrificare le nostre interazioni, lo scambio autentico e sempre generativo con chi è davanti a noi. Diciamo che siamo molto presenti con gli assenti e molto assenti coi presenti. E questo è già un primo elemento su cui riflettere, perché è evidente che avere in tasca un apparecchio che ci consente di essere connessi con chi non c’è diminuisce la nostra necessità di interagire con chi c’è.
Ma non è solo questo. La cosa vera è che il contatto con l’altro, specie con qualcuno che non conosciamo, è sempre complicato, presuppone fatica, risorse, strategie; è sempre un mare aperto, in cui bisogna mettere in conto ogni possibilità, anche fosse solo quella di annoiarsi terribilmente. Per questo stiamo online, perché la nostra bolla è una zona protetta, senza rischi. Uno studio molto famoso della Georgetown University sui sorrisi tra sconosciuti lo spiega molto bene: i cellulari offrono “un’alternativa familiare, confortevole e distraente alle interazioni potenzialmente imbarazzanti con gli sconosciuti” e ci mettono al riparo dagli imprevisti “diminuendo il numero di persone che si trovano in una situazione di disagio”.
Ecco, da quando la tecnologia ci ha dato l’opportunità di liberarcene, non siamo più disposti a tollerare il disagio. Ma lo sforzo, la noia, gli inciampi, il mistero, le contraddizioni, il disordine, che non esperiamo più, sono la vita stessa.
Ma non solo. Siamo consapevoli che leggere qualcosa su un libro cartaceo è molto diverso dal leggerlo in rete. Anche senza voler citare esperimenti e studi pubblicati, chiunque di noi si rende conto che leggere un testo fisico è un’immersione totale, che non si esperisce online. In rete siamo costantemente distratti, perché la rete è fatta per distrarci, per portarci da un link all’altro; non è nata per farci restare su una pagina.
È come se leggessimo un libro con un cane che ci lecca in continuazione la faccia, sfido chiunque a capire o ricordarsi quello che ha letto, nemmeno la lista della lavanderia. Così funziona l’online, per questo siamo così distratti. Pensiamo alla quantità di pubblicità, di contenuti altrettanto interessanti che sono lì ad attirare la nostra attenzione e a dirci, “forza aprimi, leggimi, chissà qui cosa c’è che potresti perdere”. Internet è una miniera inesauribile e la possibilità di trovare milioni di informazioni interessanti è la sua forza ma anche la sua trappola.
Ogni giorno leggiamo quasi il corrispettivo di un romanzo, in termini di quantità di parole, ma quello che ci rimane è molto poco perché in realtà quello che facciamo è ingurgitare velocemente e voracemente lacerti di testo, frammenti, titoli, righe, pezzetti di cui individuiamo il senso ma senza nessun contesto, senza mettere nulla in relazione: è un’esperienza cognitiva passiva, in cui il nostro solo agire è lo scroll, premere link, copiare url. Ma il cervello quando impara non funziona così, non è così che costruisce conoscenza. La conoscenza è capacità di filtraggio, sennò è solo rumore come diceva Umberto Eco.
La neuropsichiatra Marianne Wolf spiega molto bene come la tecnologia influenza il modo in cui il nostro cervello processa le informazioni e questo ha un enorme impatto sul modo in cui capiamo: quando leggiamo su un supporto fisico, non su uno schermo, non stiamo solo decodificando delle informazioni, ma attiviamo una serie di reti neurali, che afferiscono alle nostre capacità deduttive, inferenziali, analogiche (pensiamo a esperienze che abbiamo vissuto, facciamo confronti con la vita, riaffiorano ricordi…) , accendiamo i circuiti del tatto, del movimento, dell’empatia. È davvero, come dice la Wolf, “una danza tra lobi”.
Questa è la base del pensiero critico e del ragionamento. Senza lettura profonda non è poi possibile nessun tipo di lettura profonda perché, come spiegano i neuroscienziati, il cervello è un grande ottimizzatore. Se delle reti non le usa, le ricicla per altro. Use it or lose it. Se non alleniamo i circuiti deputati a scandagliare con attenzione le cose, ma siamo sempre online a fare skimming, a scremare, a saltare in fretta da una pagina all’altra, come possiamo poi illuderci di avere gli strumenti cognitivi che ci permettano di analizzare la complessità del mondo. La Wolf non a caso insiste moltissimo sulla qualità della nostra lettura e la qualità dei nostri pensieri.
Non solo. Stiamo perdendo anche la capacità di ascoltare. E non si tratta solo di qualcosa che togliamo agli altri, una mancanza di rispetto e di attenzione. Ma è qualcosa che togliamo soprattutto a noi stessi.
Come dicevo all’inizio, se siamo sempre distratti durante una conversazione, se la nostra presenza è frammentata, sempre sintonizzata a cogliere qualche nuovo stimolo sul nostro device, questo ha un impatto enorme sul nostro interlocutore che avverte questo nostro essere altrove e dirà inevitabilmente delle cose più, più generiche, più superficiali, meno interessanti. Provate a parlare davanti a un’aula di gente che sta sul telefonino, o che chiacchiera, o che è visibilmente poco interessata a voi. Le vostre parole scorreranno più veloci, cercherete di attirare l’attenzione con frasi forti ma che magari sono vuote – nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, a me per dire succede sempre, sarete presi dalla frustrazione e lascerete scorrere a caso le parole.
Dare attenzione non è solo la forma più rara e più pura di generosità, come diceva Simone Wei. È anche il modo migliore per dare agli altri la possibilità di darci il meglio. Non sempre succede, ma non ascoltiamo è come se in un gioco a punti qualcuno ci lancia una palla e noi la lasciamo cadere.
N. R. La domanda che sorge spontanea a questo punto è di chi è la responsabilità di questi comportamenti così distorti che abbiamo sviluppato in rete?
L. I. Sicuramente non nostra. Si dice sempre che Internet, i social non debbano essere demonizzati. Io invece penso di sì, e diffido anche di chi liquida il dibattito chiosando, dipende da te, da come li usi, dalla tua forza di volontà. Io penso invece che possa avere anche l’autocontrollo di un monaco trappista, ma se dall’altra parte dello schermo ci sono migliaia di ingegneri, che lavorano contro di te non puoi fare gran che. Non è per un eccesso di sfiducia nelle nostre capacità, ma per un eccesso di fiducia nella super potenza degli algoritmi.
Sia chiaro, non voglio con questo deresponsabilizzarci ma bisogna smetterla di usare le stesse argomentazioni impiegate per decenni dall’industria del tabacco: “fumi? È colpa tua”. Poi passano 50 anni e veniamo a sapere che le multinazionali del tabacco conoscevano benissimo la dipendenza provocata dalla nicotina, ma era più comodo dare la colpa all’incapacità dei fumatori di smettere. E francamente trovo anche disonesto l’altro argomento, quello che possiamo sintetizzare così: se stai tutto il giorno su TikTok o non riesci a staccarti da YouTube evidentemente stai male, sei debole. A parte che non capisco quando abbiamo deciso che essere fragili fosse una colpa (mi pare che l’unica lezione del Covid sia stata proprio il contrario, al punto che il mondo intero si è fermato per salvare i più deboli).
Qualche tempo fa ho intervistato un ex pezzo grosso di Google, uno dei tanti whisteblower che a un certo punto della vita decidono di mollare tutto e aprirci gli occhi, casomai avessimo ancora dei dubbi su quali siano le nobili finalità di queste compagnie. Noi abbiamo sempre pensato, perché così ce l’hanno raccontata, che l’algoritmo rimanda ai tuoi interessi. Quindi, se trovi interessante capire come staccare una lametta da un temperino per tagliarti le vene e ti trovi il tuo newsfeed pieno di consigli non è colpa della rete.
Bene, non è esattamente così. L’ex Google, che per anni si è occupato di affinare i motori di raccomandazione che ci fanno apparire un video dopo l’altro di YouTube, mi ha spiegato che in realtà quello che vanno a cercare, per poi srotolartelo sulla bacheca, non sono i tuoi interessi, bensì le tue vulnerabilità, le tue fragilità. Perché sono quelle che ti tengono incollate allo schermo, quelle che ti “ingaggiano” di più. Sapete che l’engagement è la parola feticcio della Silicon Valley, il coinvolgimento, che però ha un’area semantica più vasta che ha a che fare con l’arruolamento, il fidanzamento; quindi, qualcosa che ti muove un’adesione totale.
L’ex Google, per esempio, mi diceva che a lui interessavano le news dal mondo, ma quello che si trovava sempre sulla bacheca erano scene di aerei in avaria, aerei che precipitano, aerei che atterrano in emergenza, aerei che esplodono. E questo perché il tizio è terrorizzato quando vola e il tema è qualcosa che esercita su di lui quel potere attrattivo che hanno tutte le cose che ci fanno paura. «Per questo», mi spiegava, «sto ore incollato ai miei social. Se mi arrivassero solo notizie di cronaca, esattamente quello che a me interessa, starei qualche minuto poi, una volta capito cosa è successo nel globo, basta». Nulla in rete accade per caso, insomma.
È il principio che ha decretato il successo di TikTok, ancora più subdolo di Instagram o Facebook. In quei social si richiedeva ancora qualche azione da parte nostra: per profilarci serviva un nostro like o una condivisione. Su TikTok, invece, la questione diviene molto più passiva per l’utente. Basta iscriversi e la piattaforma fa scorrere davanti a noi un flusso continuo di contenuti, a caso.
Poi, basta una frazione di frazione di secondo in più del nostro occhio che si sofferma, che so, su un cane che cerca casa, ed ecco che l’algoritmo ha capito che quella è la nostra parete molle. Con me l’ha fatto: ho cercato di mettere tutti i Mi piacepossibili a profili di case, design piante, giornali, ma niente, quello che scorre ininterrottamente sotto i miei occhi sono video di cani abbandonati, canili disperati, volontari che non sanno come fare… e io sto lì, in uno scrollo senza fine, prendo appunti, li vorrei adottare tutti, non riesco a staccare lo sguardo dai loro occhi.
Più io mi angoscio a leggere le loro storie, in un assurdo senso di colpa che “fragilizza” la mia già instabile emotività, più gli azionisti di TikTok, Instagram, Facebook macinano utili. La mia distrazione e la mia depressione sono direttamente proporzionali al loro conto in banca. Non possiamo scappare. Come possiamo pensare di competere?
N. R. Possiamo pensare a una responsabilità anche dei creatori, degli editori, persino dei giornalisti culturali? Mi spiego: se apriamo un qualsiasi sito culturale oggi ci rendiamo conto che consapevolmente o inconsapevolmente il suo creatore o il suo editore è sceso a compromesso col sistema, infarcendo di link esterni, a volte pubblicità, rimandi ad altri siti, ad altri articoli o ad altre funzioni dello stesso sito ai lati dell’articolo che stiamo leggendo. Quasi verrebbe da domandarsi perché non ci si oppone, perché si scegli di cedere al compromesso. Se siamo qui a fare cultura perché scegliamo di accomodare processi che rischiano di abbassarne la qualità? Se siamo consci di questi meccanismi perché li assecondiamo? E forse è proprio questo il problema, che non ne siamo totalmente consci?
L. I. C’è una grandissima resistenza su questo problema. Non so esattamente perché. Mi rendo conto che anche quando si parla dell’impatto dei social, la stragrande maggioranza delle volte persino gli esperti non sono informati sui rischi che corriamo, specie i più giovani che hanno la corteccia prefrontale ventro-mediale, la cui attivazione è fondamentale, per esempio, nella comprensione e nella gestione delle emozioni, ancora in fase di sviluppo. C’è una specie di resistenza forse perché l’avvento di Internet, per noi che eravamo già grandi quando dai computer delle università è arrivato a tutti, è stato un tale evento messianico. C’era una tale eccitazione che tuttora persiste e ogni critica viene sempre presa come eccessiva.
Io credo che ci sia una specie di incomprensione, mista a diffidenza iniziale per i più piccoli, le generazioni che sono nate e cresciute solo ed esclusivamente nel mondo digitale. Ma siamo noi che, invece, responsabili davanti a loro. Non leggono, fanno fatica a capire il contenuto, scorrono velocemente sui testi continuamente interrotti da notifiche e messaggi, ma sono convinti di sapere tutto. E questo non perché sono arroganti o presuntuosi, ma perché questo è uno degli effetti della lettura online.
Lo ha dimostrato poco fa un imponente studio chiamato E-Read su centinaia di migliaia di partecipanti: i lettori digitali tendono a sopravalutare le loro capacità di comprensione e questo li induce a leggere in modo più superficiale, meno concentrato. È un gatto che si morde la coda: leggi online in modo veloce e sciatto convinto di capire e più leggi in modo sciatto e veloce più ti convinci di poter capire tutto leggendo in modo veloce sciatto e veloce.
Se siamo arrivati dove siamo è per la nostra consapevolezza di non sapere, il nostro senso del limite e la volontà di superarlo. Quando nel 1996 Wislawa Szymborska ha ritirato il Nobel per la letteratura, nel discorso davanti al mondo ha detto quali sono sempre state per lei le parole più importanti: non so.
Il punto, però, è anche che siamo in uno di quei momenti dell’umanità che cambiano il corso della storia, e mi riferisco all’avvento dell’Intelligenza Artificiale, di macchine capaci di scrivere testi, poesie, comporre musica, foto, video perfettamente indistinguibili da un essere umano.
Ho appena finito di leggere il libro di Melanie Mitchel (Intelligenza Artificiale. Una guida per esseri umani pensanti): nelle prime pagine l’autrice racconta di essere andata nel 2014 a un mega incontro Google sul tema dell’AI alla presenza dei più grandi esperti che lavorano su reti neurali e modelli linguistici. L’ospite più atteso, la star dell’incontro era il professore di informatica con cui la Mitchel tanti anni prima non solo aveva fatto il dottorato, ma anche la persona grazie alla quale lei, come altri migliaia di studenti al mondo, avevano deciso di virare verso l’Intelligenza Artificiale: Douglas Hofstadter, un guru del tema, considerato il pioniere indiscusso di questi studi.
Tutti si aspettavano che il vecchio professore, autore peraltro di un libro su intere generazioni di studiosi di machine learning si erano formati, prendesse la parola e magnificasse i prodigiosi successi che l’intelligenza artificiale stava facendo. Non andò così. Hofstadter raccontò di essere rimasto sconvolto quando, in un consesso con massimi esperti musicologi, nessuno era riuscito a distinguere un pezzo composto da una macchina da un pezzo reale di Chopin. Peggio, dopo lunga e accurata analisi, non avevano avuto dubbi a decretare di chi era uno e di era l’altro, un verdetto all’unisono che attribuiva il pezzo composto dalla macchina a Chopin. L’esatto contrario di come stavano le cose.
Non possiamo nemmeno immaginare cosa sta per accadere. Nel libro 8 secondi indago gli aspetti e l’impatto cognitivo del digitale, ma mi rendo conto che è già preistoria, tutto quello di cui parlo non è niente rispetto a quello che sta per abbattersi su di noi. Pensiamo a ChatGTP: non c’è solo la storia tremenda di un ragazzo che ha chiesto aiuto a una chatbot che alla fine gli ha consigliato che la cosa migliore fosse togliersi la vita. Penso come sarà vivere in un mondo in cui non possiamo più sapere se quello che leggiamo, vediamo o ascoltiamo è vero, è falso, è vero nel senso che è successo ma è falso nel senso che non è stato davvero documentato… una gran confusione epistemologica.
Una fotografa bravissima specializzata in matrimoni che conosco, Barbara Zanon, ha realizzato un reportage molto bello sulla guerra in Ucraina. Si trova in rete, bellissimo. Ora, La guerra in Ucraina c’è, delle città sono state distrutte, la gente ha fatto la fila davanti alle bare, delle persone anziane sono rimaste sole nelle case distrutte. Tutto questo è vero, ma le foto di Barbara Zanon non sono mai state scattate. Sono state fatte nella sua casa di Venezia da cui non si mai mossa. Le ha create con l’applicazione di AI Midjourney, qualche mese fa.
Se vogliamo, poi, valutarne la velocità di apprendimento, pensiamo che all’inizio la AI aveva ancora qualche difficoltà a fare le mani, ma adesso sono perfette. Non solo, Midjourney qualche giorno fa ha rilasciato la versione 5.2 e ha aggiunto nuove funzioni: puoi creare un’immagine e poi la puoi espandere, aggiungi elementi al contesto, uno zoom out, come si dice, che rende tutto molto, molto più plausibile.
Personalmente io voglio anche pensare bene: non voglio pensare che tutti si metteranno a usare queste tecnologie per contraffare il mondo. Ma a me fa paura l’impatto che avrà su di noi non saper più cosa ci troviamo davanti, quella forma di nichilismo che non è più un nichilismo di valori, il Dio è morto di Nietzsche – la fine delle credenze religiose, le tradizioni – ma il nichilismo che nasce nel momento in cui perdiamo la fede nella fattualità, perdiamo la spinta alla verità stessa. Come dice il filosofo Biung Chukl Han, «tutte le opinioni sono legittime fino a quando rispettano la verità di fatto». È un problema se si sfuma la distinzione tra verità e menzogna, al punto che non ci interessa nemmeno più. A me l’anestesia della coscienza fa paura.
Come possiamo provare compassione guardando un’immagine di migranti in mare se non sappiamo se è vera o no? O empatizzare con il dolore di una famiglia che ha perso il lavoro, la casa se abbiamo il dubbio che quel testo, quel video possa averlo generato un AI. Se cinquanta anni fa davanti alla foto della bambina che scappa dal villaggio del Vietnam colpito dal napalm degli americani il mondo avesse pensato: «Boh, sarà poi vera, sarà successo? Magari sì, ma forse l’ha ricreata Midjourney», che cosa sarebbe stato di quella guerra? Ci sarebbe stata quell’ondata di sdegno che ha contributo a far cessare l’orrore? Se non possiamo più credere a nulla, se persino la verità non vale più niente, che cosa ci resta?
Penso che – anche nel XXI secolo, e non parlo di fede – il problema sia sempre lo stesso: credere. Una società della sfiducia e della diffidenza non è un buon posto in cui vivere. Ancora prima che le macchine decidano che siamo una specie inutile e ci facciano fuori.
N. R. Il digitale ha ipersviluppato anche un’altra delle nostre facoltà: l’udito. Fioccano podcast, programmi radio e app che ci aggiornano sulle ultime notizie, ci intrattengono, ci leggono libri o ci permettono di approfondire temi complessi, solo ascoltando. Lei crede che questo meccanismo inneschi gli stessi processi negativi che si innescano attraverso l’ipersfruttamento dell’immagine o c’è qualcosa di diverso? Forse qualcosa di peggiore o migliore?
L. I. C’è una superproduzione, un’ipertrofia di contenuti enorme, anche nell’audio. La sovrabbondanza che ormai è la cifra di ogni ambito della nostra vita ha investito anche i prodotti audio. Ma di nuovo, come per la quantità di immagini, di testi, e così via: il nostro cervello non ce la fa. Il filosofo sudcoreano trapiantato a Berlino, Bhiung-Chul Han parla di “Information fatigue syndrome”, sindrome da affaticamento mentale per l’eccesso di imput. Noi ci illudiamo che iper-sollecitando il nostro cervello di stimoli – podcast compresi, ne escono mille al giorno – ci arricchiremo. Ma in questo modo siamo inondati di informazioni e non riusciamo più a distinguere le osservazioni importanti da quelle irrilevanti. Per parafrasare sempre il filosofo coreano, paradossalmente un aumento di informazioni non porta necessariamente a decisioni migliori, anzi. Anzi, finisce per atrofizzare proprio la facoltà superiore del giudizio. Spesso “un meno” nell’informazione produce “un più”.
L’estrema disponibilità di così tanti materiali grazie alle nuove tecnologie per certi aspetti sta contribuendo alla nostra involuzione cognitiva ed emotiva, l’esatto opposto di quello che si prefiggeva Internet quando è nato:democratizzare la conoscenza, mettere in relazione ogni parte del mondo, abbattere le barriere, dare a tutti le stesse possibilità. Beh, non è andata proprio così.
Il mezzo, lo diceva McLuhan, non è neutro. Non ricordo chi l’ha scritto, ma se le Tavole della Legge Mosè le avesse scritte, invece che sulla pietra, su WhatsApp, temo avremmo avuto 100 comandamenti, non 10! La scrittura cambia a seconda del mezzo utilizzato, ci sono decine di esempi. E lo stesso vale per la lettura.
Sempre Maryanne Wolf sostiene che se la rete fosse fatta di pochissimi articoli, o per assurdo di un solo articolo, che l’utente potesse leggere profondamente, studiare, guardare da cima a fondo più volte, andrebbe pure bene leggere su uno schermo fatto di pixel. Ma non è così. La rete, ripeto (e con rete intendo tutto quello che ci passa, video, testi, immagini, audio) non è pensata per farci restare ma per farci consumare in modo vorace, un’assunzione bulimica di contenuti. Non c’è quasi tempo di pensare, di riflettere. E c’è ben poco che possiamo conservare in questa modalità di fruizione.
Poi come sempre non bisogna buttare tutto. Trovo molto preziosi, per esempio, le trasmissioni che trascrivono gli audio consentendoci così di poter rileggere, riflettere e metabolizzare quello che abbiamo ascoltato. L’importante è liberarci – lo so che è difficile – dell’ossessione di dove vedere tutto, leggere tutto, ascoltare tutto. La famosa FoMo, la paura di perderci qualcosa. Dobbiamo avere il tempo di elaborare e di acquisire quello che ci arriva addosso: come diceva il matematico Henri Poincaré, i dati non sono conoscenza così come dei mattoni non sono una casa.
Penso che dovremmo avere dei Virgili, che ci accompagnano, qualcuno che faccia per noi quell’operazione fondamentale di filtro.
Per esempio, io amo molto la rassegna stampa culturale fatta da Radio3 che spesso seleziona delle cose che altrimenti non avremmo mai intercettato. Pensiamo, ad esempio, agli articoli del “New Yorker”, del “The Atlantic”, o i reportage francesi: sono lunghissimi e molto preziosi e spesso la radio ne legge ampi stralci. In Italia non sarebbero neppure immaginabili sui giornali di carta spazi del genere, e paradossalmente il luogo perfetto per questo tipo di contenuti da noi lo offre la rete. Questo è un aspetto interessante, una contraddizione che fa riflettere: l’online che è il luogo nato per la velocità, le breaking news, poi è lo stesso luogo che produce e conserva interventi di cinquecento pagine che non sarebbero mai potuti esistere sulla carta, anche banalmente per ragioni di spazio o di sostenibilità economica. È lì, online, che si trovano le cose più interessanti.
N. R. Quali sono le reali possibilità di tale sistema digitale da continuare a sfruttare? È chiaro che sono molte le pecche di internet. Ma cosa può guadagnare il giornalismo e, più in particolare, il giornalismo culturale dalla rete, che non potrebbe mai ottenere dalla carta stampata?
L. I. Alcune delle sue più grandi possibilità le abbiamo già toccate, ma voglio aggiungere ancora qualcosa. La ricchezza non è solo quantitativa online, ma anche qualitativa, non è solo una questione di spazi, ma lo spazio e la disponibilità di spazio spinge a scrivere di più e meglio. Anche più liberamente.
Mi spiego meglio: se leggiamo le pagine culturali del “Corriere” o de “la Repubblica” sappiamo già, non tanto quali notizie, ma quale punto di vista ideologico troveremo, nell’online si è invece molto più liberi. Anzi se c’è una possibilità di sopravvivenza della riflessione e del ragionamento, secondo me è l’online. Ma bisogna essere oggettivi e sarebbe interessante indagare la contraddizione che si crea: il web è anche il luogo della morte della riflessione. È stimolante pensare che nel luogo della velocità e della banalità per eccellenza invece trova posto qualcosa che è esattamente il contrario, il trionfo della profondità che neppure offline sarebbe possibile.
N. R. C’è qualcosa da salvare in definitiva.
L. I. Certo, tanto. Anche in termini di capacità. Per esempio, la velocità di per sé è un valore, se ci muoviamo in una gestione del tempo consapevole. Il problema della rete è che ci toglie questa consapevolezza del tempo, compreso quello che perdiamo. È importante anche perdere tempo, ma bisogna esserne coscienti, se no non serve a niente. Una volta era una scelta, oggi no.
Decidiamo di rilassarci e poi ci accorgiamo di avere passato in rete due ore a non si capisce fare cosa, nemmeno ce lo ricordiamo. Soprattutto non abbiamo più tempi morti, che invece sono fondamentali per il nostro cervello. E lo spiegano sia gli artisti che i neuroscienziati. Non abbiamo più attese, momenti di vuoto, nemmeno quella manciata di secondi al semaforo: siamo subito lì che facciamo scorrere il pollice sui tasti, velocissimi, del nostro smartphone. Video, suoni, sciocchezze che però ci lasciano più esausti di prima.
Ma torniamo alle capacità che abbiamo acquisito: anche la velocità decisionale, aprire un link piuttosto che un altro, scegliere se fermarci su un contenuto, virare a un altro, individuare una parola che ci apre un‘altra pagina… È tutto prezioso, nessuno lo può negare. E infatti i ragazzi di oggi sono rapidissimi, fanno davvero link a una velocità che io mi sogno, sanno dove trovare subito informazioni che conoscono in rete, hanno un’app e un tutorial per tutto. Sono capacità utilissime.
Il punto, insomma, per finire questa lunga conversazione è che se andiamo in rete sapendo esattamente quello che stiamo cercando, allora il web è una miniera di pepite d’oro. Ma se andiamo alla cieca, questo universo che si apre davanti a noi come un caleidoscopio infinito è disorientante e paralizzante. Senza punti di riferimento in questa infinita orizzontalità del sapere, finiamo per ingurgitare e basta informazioni che il più delle volte non ci servono. È un problema culturale su cui dobbiamo ancora fare molto. E non si parla di educazione digitale perché in questo, soprattutto le nuove generazioni sono preparatissime. Bisogna dare degli strumenti, leggere molti libri, esercitare i giovani alla complessità, a un mondo non a portata di clic.
Le macchine – lo ripetiamo allo sfinimento – sono preziose, indietro non si torna, ma bisogna rafforzare il sistema cognitivo due, quello della complessità, della profondità, dell’astrazione, perché solo così la rete sarà uno strumento essenziale di conoscenza e di arricchimento.
La scuola è un tassello fondamentale. Insegnare alla pazienza cognitiva, alla tolleranza, alla curiosità, alla verifica, a farsi mille domande più che a cercare mille risposte.
La capacità di ragionamento, il pensare fuori dagli schemi, l’empatia verso gli altri e l’ascolto di sé stessi – in una parola, il nostro essere umani – sono e saranno ancora fondamentali.
Ci dicono ogni giorno che un’Intelligenza Artificiale presto sarà più intelligente di noi. Cerchiamo di non agevolarla troppo.
La Redazione Editoriale di Questione Civile