Philippa Foot e la sfida etica del Trolley problem
Il dilemma del carrello è un esperimento mentale di filosofia morale proposto per la prima volta dalla filosofa inglese Philippa Foot nel 1967 nel suo articolo “Il problema dell’aborto e la dottrina del doppio effetto”.
La situazione è la seguente:
Immagina di essere il guidatore di un tram che conduce un veicolo capace solo di cambiare rotaia, senza la possibilità di frenare. Sul binario percorso si trovano cinque persone legate e incapaci di muoversi e il tram è diretto verso di loro. Tra il tram e le persone legate si diparte un secondo binario parallelo, sul quale è presente una persona legata e impossibilitata a muoversi. Tu, guidatore, ti trovi nei pressi della deviazione tra le due rotaie e quindi sei di fronte a due alternative opposte: lasciare che il tram prosegua dritto la sua corsa, uccidendo le cinque persone, oppure azionare lo scambio e ucciderne una sola.
La scelta in questo caso è dettata da quel principio che sembra essere il “male minore” ma siamo sicuri che l’individuazione del “male minore” sia una questione oggettiva?
Si tratta di uno dei più celebri problemi morali, una vera e propria situazione limite in cui l’uomo è posto di fronte a una scelta paralizzante riguardante la declinazione delle proprie responsabilità. Viene spesso usato nelle discussioni etiche di ogni tipo, come nelle scelte riguardanti la medicina o l’intelligenza artificiale, mettendo alla prova le intuizioni morali umane.
Le interpretazioni del Trolley problem
Nel porre tale dilemma, il 90% degli intervistati risponde che preferirebbe azionare la leva poiché, da un punto di vista puramente quantitativo, è meglio sacrificare una vita per salvarne altre cinque.
Chi ha questa opinione adotta il principio utilitarista secondo cui la scelta morale corretta è quella che massimizza il bene per il maggior numero di persone.
L’utilitarismo è una corrente filosofica nata in Inghilterra nell’800 da Jeremy Bentham e Jhon Stuart Mill. Secondo questa dottrina è bene ciò che contribuisce ad aumentare la felicità in una dimensione collettiva, non considerando alcuna prospettiva individuale. Gli esseri umani provano istintivamente un’avversione a far del male agli altri e reagiscono in modo razionale secondo la legge del “male minore”. In concreto quindi: cinque vite valgono più di una.
L’etica deontologica
Non sempre tuttavia siamo in grado di agire secondo il “bene comune”. Esiste una seconda variante del dilemma del carrello che fa cambiare la visione complessiva degli intervistati. Questa volta siete su un ponte sopra il binario, mentre il treno in movimento si avvicina. Non c’è un secondo binario, ma sul ponte vicino a voi c’è un uomo che per qualche ragione pesa abbastanza da fermare il treno. Se lo spingete giù, il corpo fermerà il treno salvando i cinque operai, ma uccidete l’uomo.
In questo caso, solo il 10% circa dice che va bene spingere l’uomo sui binari. Questo perché causare intenzionalmente e volutamente la morte di qualcuno è diverso dal lasciarlo morire come effetto collaterale. Ciò implica una maggiore imputabilità delle proprie azioni e il fardello della responsabilità è inevitabilmente maggiore.
Quel 10% di persone che non azionerebbe la leva agisce secondo una linea interpretativa deontologica.
L’etica deontologica, il cui massimo esponente è il filosofo settecentesco Immanuel Kant, viene espressa per la prima volta nella Critica della Ragion Pratica.
Il modello deontologico fonda l’etica nel rigore logico, diventando la scienza delle motivazioni della condotta umana: secondo questa visione è sbagliato uccidere sempre e in ogni caso. Kant ha elaborato un sistema etico valido e universale, nel quale le azioni vengono giudicate in base al loro ossequio al dovere, in vista e per il rispetto della legge morale.
Mentre il principio utilitarista tiene conto dunque delle conseguenze delle azioni massimizzando il benessere per il maggior numero di persone e agendo secondo il criterio dell’utilità, l’etica deontologica tiene conto dei principi che guidano un’azione come criterio da rispettare sempre e comunque.
“Il problema dell’aborto e la dottrina del doppio effetto”
Il dilemma morale del carrello sorge dalla domanda «È più giusto lasciar morire oppure uccidere salvando delle vite?». La riflessione viene elaborata nel 1967 da Foot nell’articolo “The problem of Abortion and the Doctrine of the Double Effect” dove critica la dottrina del doppio effetto posta da Tommaso d’Aquino. Secondo il teologo italiano se un comportamento amorale, come uccidere, porta con sé un bene superiore al male inflitto, allora un’azione normalmente considerata immorale può diventare lecita.
Foot arrivò a rifletterci attraverso il rompicapo precedentemente esposto. Si potrebbe pensare in questo caso che manovrare la leva non implichi l’intenzione di uccidere ma solo quella di salvare, tanto che la maggior parte degli intervistati risponde che azionerebbe volontariamente la leva.
Tale problema presenta tuttavia delle variabili, come quella esposta da Judith Travis Thompson nei suoi saggi “Killing, Letting Die and the Trolley Problem” (1976) e “The Trolley Problem” (1985).
Trolley problem: la posizione di Judith Travis Thompson
La filosofa statunitense ha proposto in questi saggi delle varianti provocatorie dello scenario originale che sembravano minare l’analisi basata sul dovere di Foot. A lei si deve la versione dell’uomo grasso simile a quella del violinista proposta nel saggio “Una difesa dell’aborto”.
Quest’ultima versione è presentata nella maniera seguente:
Una mattina ci svegliamo e ci troviamo distesi al fianco di un famosissimo violinista privo di coscienza. Gli è stata diagnosticata una grave insufficienza renale, e la società dei musicofili ha scoperto che noi siamo gli unici a possedere il tipo di sangue adatto per la trasfusione. La società ci ha allora rapiti e ha collegato il nostro sistema circolatorio a quello del violinista, in modo che i nostri reni possano depurare il suo sangue, e ci viene detto che occorrerà rimanere in questa situazione per nove mesi prima che il violinista guarisca dalla sua insufficienza. La società dei musicofili ci ha certamente fatto un torto, ma staccarci dall’apparecchio significherebbe uccidere il violinista. Abbiamo il dovere morale di acconsentire a questa situazione? E la risposta cambierebbe se invece di nove mesi si trattasse di nove anni, o di un periodo ancora più lungo?
La versione del violinista proposta da Thompson viene spesso utilizzata per dibattere sulla questione dell’aborto
Analisi della versione del violinista
L’autrice infatti, paragonando la situazione del violinista che necessita dei nostri reni per vivere alla relazione tra la madre e il feto, sostiene che il diritto alla vita di quest’ultimo non implica il diritto di usare il corpo della donna senza consenso. Con ciò Thompson vuole dimostrare che una donna non è moralmente obbligata a portare avanti una gravidanza, anche ammesso che il feto sia considerabile come persona dal momento del concepimento.
L’aborto è quindi giustificabile, poiché il diritto all’autonomia personale della donna prevale sull’obbligo di sacrificarsi per altri.
In conclusione dunque per quanto il possesso di entrambe le facoltà possa essere vantaggioso, in alcuni casi, esemplificati dal Trolley problem, non c’è spazio per mediazioni o compromessi, non c’è punto di incontro, ma solo una decisione da prendere e non è sempre facile capire quale azione produce davvero le migliori conseguenze.
Ginevra Tinarelli per Questione Civile
Sitografia:
www.ilsuperuovo.it
www.geopop.it
www.lavocedellelotte.it
www.ultimavoce.it
magazine.melainsana.it
ichi.pro
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www.britannica.com
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Bibliografia
G. Ferranti e S. Maffettone (a cura di), Introduzione alla bioetica, Liguori, Napoli, 1992