Corpo e canto: identità e godimento
Roland Barthes, saggista e semiologo, trattando del canto romantico, scrisse che cantare è
«godere fantasticamente del mio corpo unificato».
Quest’affermazione esprime la potenza del canto, un’esperienza di profonda soddisfazione non meramente intellettuale bensì anche “fisica”. Per descrivere questo nesso tra la materia acustica e il piacere che essa genera nel corpo, Barthes utilizza il termine “grana”; la grana della voce emerge quando, con il canto, la voce perde la sua valenza semantica e si fa corpo e, in quanto corpo, può generare soddisfazione.
Tradizionalmente, il sonoro e il semantico sono stati considerati un’unità, ma la componente acustica della voce è stata ritenuta a servizio di quella semantica. Il significato deve precedere la voce, se l’essenza della voce umana è la capacità di veicolare un concetto.
Anche le difficoltà che la voce può incontrare fanno segno dell’antecedenza di quel significato, anche quando fallisce nell’intento di comunicare: dal balbettare all’interrompersi mentre si parla, dallo schioccare la lingua alla perdita di controllo fino all’afonia assoluta. Sono tutte possibilità per manifestare ciò che il soggetto non vorrebbe, eppure dice.
La ricerca psicoanalitica ha mostrato che, seppur nell’errore e nell’inciampo, la voce può farsi segno di un significato nascosto nell’inconscio ed espresso in modo metaforico. Si tratta di una figura della voce che potremmo definire positivistica, poiché centrata sull’idea che sia possibile pervenire a una verità semantica. Tuttavia, è possibile parlare di una concezione “negativa” della voce, per così dire vuota, in nessun modo veicolo del concetto.
Allora, alla sparizione della componente significativa, corrisponde la comparsa dell’unicità di una voce, fenomeno irriducibile della singolarità di un soggetto. Il canto è la manifestazione esemplare di questo passaggio: nella voce che canta, la parte comunicativa e semantica si riduce lasciando emergere la materia di cui la voce è fatta, la sua corporeità.
Dal Sé all’Altro, dalla voce al corpo
In psicoanalisi, il “sentirsi parlare” potrebbe ritenersi la forma primigenia di auto affermazione della coscienza, il fattore elementare della costituzione dell’identità. Jacques Lacan ha dedicato molta della sua iniziale speculazione alla formazione dell’Io, al narcisismo elementare e allo strumento primario di tale parlare viene finalmente percepito come unità. Una percezione che dà il via alla serie di identificazioni che consegneranno al soggetto l’illusione di essere un io: in altri termini, le identificazioni danno una consistenza immaginaria al soggetto.
Si può sostenere, sebbene non espresso da Lacan, che anche la voce contribuisca alla formazione dell’Io, come se si facesse corpo; si tratta di un tipo di identificazione molto diversa, e probabilmente più complessa, che però segue la stessa logica della deriva immaginaria della costituzione dell’Io: anche nel caso della voce, la storia del soggetto passa per un momento illusorio in cui il soggetto si riconosce nella voce dell’Altro.
Il rapporto con l’Altro è sempre l’unica e decisiva possibilità di costituzione del soggetto, e all’Altro il soggetto deve per forza indirizzarsi: anche la voce, nell’atto stesso dell’emissione, si introduce nel dominio dell’Altro per tornare nello spazio del soggetto, che può così riconoscersi come tale (Silverman 1988). Per esempio, il grido del neonato avrà come meta il “farsi sentire” come se toccasse il corpo del suo prossimo. Dovrà, cioè, raggiungere e passare attraverso l’Altro per poi concludere il suo giro tornando al soggetto: al termine del suo giro il grido sarà diventato un’invocazione, perché l’Altro lo avrà raccolto e avrà risposto all’appello. In modo logicamente simile, la voce dell’Altro è il ritorno della propria voce: la voce che risponde all’invocazione consente all’infante di riconoscersi come io; come se la voce fosse stata riflessa da uno “specchio acustico” diverso, eppure forse più potente, rispetto alla materialità di un corpo.
Specchio ad eco del corpo
Erik Porge ha proposto di aggiungere allo stadio dello specchio anche uno stadio dell’eco (2012), uno stadio molto precoce in cui si realizza uno scambio di suoni, un rapporto di risonanze: in questo stadio, prima di introdurre il mondo del significato, la voce si configura come un “canto” che stabilisce il rapporto dell’infante con sé e col mondo, con l’Altro. In questo momento del processo costitutivo dell’identità è la sola voce, non il contatto con il corpo, che produce l’effetto di creare la relazione con l’Altro, e di certo la significazione non è ancora coinvolta.
Riprendendo l’esempio del grido del neonato: non c’è un significato in esso prima che venga accolto dall’Altro, piuttosto è l’Altro che assegnerà un significato a quel grido (“ha fame”, “ha mal di pancia”, eccetera); la trasformazione da phoné a logos avverrà quando l’Altro depositerà nella phoné inarticolata i significati che la renderanno espressiva. Prima di ciò, quel grido, senza l’Altro, non può significare niente. Il passaggio attraverso l’Altro consentirà dunque di distinguersi come soggetto, di essere riconosciuto e di riconoscersi.
Nella teoria lacaniana, l’immagine allo specchio provoca il riconoscimento giubilatorio dell’unità dell’Io e allo stesso tempo l’alienazione della propria identità nell’immagine stessa; allo stesso modo l’esperienza della voce si configura come riconoscimento di sé ma pure come rivelazione di un’intima alterità costitutiva del soggetto, poiché anche la voce è in qualche modo sempre esterna.
Queste considerazioni sulla similarità tra la logica dell’identificazione immaginaria e dell’identificazione vocale ci permettono la seguente sintesi: il canto è un momento di unità del corpo che equivale, in termini libidici, al momento giubilatorio del riconoscimento di sé allo specchio, perché quando la voce torna a farsi canto il corpo viene percepito come nuovamente unificato.
Lalangue, secondo Lacan
Nel Seminario XX, tenuto nel 1972-1973, Lacan varia la sua idea di parola e di linguaggio, inventando un termine che dovrebbe indicarne i nuovi caratteri: è lalangue, quella parola che non è più significante, ma è, appunto, solo godimento. Una virata molto brusca del suo pensiero, verso l’identificazione di uno statuto più originario della parola: prima di essere mezzo di comunicazione, prima di essere inclusa nella grammatica del linguaggio, è una forma di godimento. Lacan cessa di credere che il simbolico sia primario, che il linguaggio presti la sua struttura al soggetto; c’è invece una lingua che accade prima del linguaggio, prima di essere catturata dal dizionario e dalla grammatica, prima del suo ingresso nelle strutture significanti: lalangue, una lingua svincolata dal linguaggio, dalla significazione, dalla necessità di dire qualcosa; proprio per questa sua libertà, la lingua permette il parlare che fa godere, il blablabla, che non significa niente.
Il soggetto gode anche in ragione della parola insignificante, gode de lalangue, del semplice fatto che la voce abbia un corpo. Questo godimento che è nella voce in se stessa dovrà poi essere perduto affinché la parola sia possibile: se vogliamo che la voce “dica” qualcosa, bisogna che essa perda il godimento di sé.
Ecco, dunque, cosa desidera la voce che canta: realizzare la coincidenza tra voce e corpo, e recuperare così il godimento originario; quella soddisfazione in cui la voce non ha significato, e il corpo non è differenziato né territorializzato dal simbolico né dal linguaggio.
Maria Di Lanno per Questione Civile
Sitografia:
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