Come la poesia entra nella canzone italiana
Qualche anno fa, quando Bob Dylan ha – meritatamente – vinto il Nobel per la letteratura, è stata una levata di sopraccigli. Fra le critiche più radicali a quest’assegnazione, contestata anche per ragioni politiche (e perfino per ragioni più miserevoli di quelle politiche), qui interessano quelle secondo cui quel Nobel sarebbe stato un errore colossale e una violazione dello stesso statuto di un premio letterario.
La canzone non è poesia, la canzone non è letteratura, hanno detto alcuni, e chiaramente alcuni – molti – di questi «alcuni» sono letterati non propriamente acclamati dal pubblico o dalla critica (quella di cui non fanno parte essi stessi, beninteso): fra le voci dissenzienti, dai «nostrani» più risentiti come Valerio Magrelli e Ferdinando Camon, ai certamente più noti, ma difficilmente in pole position per un Nobel, Jason Pinter (giallista americano parente di Harold) e Alessandro Baricco.
Quest’ultimo aveva mosso l’obiezione delle obiezioni: «Cosa c’entra con la letteratura?», aveva malignamente domandato a proposito di Dylan. E Magrelli parla addirittura di «scandalo imperdonabile» per qualificare la decisione degli Accademici svedesi di far entrare nella letteratura i testi delle canzoni.
Quindi un altro poeta, Umberto Fiori:
«Povera poesia. Non solo tenuta ai margini, ma ridotta a una vizza corona d’alloro da mettere in capo a una rockstar che non ne ha alcun bisogno».
La poesia (si) muove
Ora, sarebbe interessante fare un esperimento mentale, immaginandoci i surcigliosi e impegnatissimi Magrelli e Fiori alle prese, in altre epoche storiche, con Omero, Alceo, Saffo, Anacreonte (i cui componimenti – è fatto certo – erano destinati al canto), oppure con Turoldo (il misterioso autore della Canzone di Orlando), coi trovatori, con San Francesco, Jacopone da Todi (autori di componimenti destinati al canto corale ma indiscutibilmente di alta poesia), Gabriello Chiabrera e Metastasio (i migliori librettisti delle rispettive generazioni).
Il fatto è che la poesia deve movere, come diceva un poeta latino (forse) un poco più autorevole dei pur validissimi detrattori di Dylan: Orazio. E movere significa, certo, muovere gli affetti, commuovere, istituire legami d’empatia; ma significa pure trascinare.
Ci sono state e ci sono tutt’ora poesie in grado di movere le quali, sfruttando la figura retorica «poetica» per eccellenza – la metafora –, per movere si sono prestate e si prestano di preferenza a un’esecuzione «parlata» o «letta», da eseguirsi in una corte, in un salotto, a letto, in mezzo a un prato: Ariosto, Milton, Leopardi, Pavese, per fare nomi da nulla; e, ovviamente, Fiori, Magrelli e tutti i poeti che oggi si prendono sul serio e parlano di crisi/morte/agonia della poesia.
Preterizioni necessarie: De André, De Gregori, Mogol
In questa sede, non vorremmo occuparci nemmeno di ribadire giudizi che, quantomeno a un livello di medi lettori di poesia e/o appassionati di musica, sono evidenti con buona pace degli «apocalittici» più spinti, per dirla à la Umberto Eco.
Non vorremmo, cioè, fare i soliti nomi dei cantautori/parolieri-poeti della tradizione occidentale e segnatamente italiana, convocando De André, che ha scritto, fra le altre, «cose» come La guerra di Piero; né, per restare in tema di anti-militarismo, faremo cenno a Generale di De Gregori, o all’affresco sociale che ritrae ogni tempo in Titanic. Né, poi, menzioneremo La canzone del sole, uscita dalla penna di Mogol, che su quattro semplicissimi ma insostituibili accordi serrati in un ritmo altrettanto semplice e necessario, riesce a dipingere il dolce-amaro di una deflorazione con ogni tinta accesa e ogni mezza tinta.
I tre nomi che abbiamo fatto – Dé André, De Gregori, Mogol – identificano, evidentemente, altrettanti poeti, e il caso è chiuso; e lo sarebbe pure se seguissimo le parole del difensore della Poesia con la P maiuscola, Valerio Magrelli, che afferma: «Volete ascoltare la fusione tra linguaggio e musica? Chiedete alla canzone.
Volete conoscere la forza del linguaggio? Rivolgetevi alla poesia. Baste tenere distinte le due cose, pena, appunto, il ridicolo». Ebbene, sono abbastanza certo che chi, non conoscendo la musica delle canzoni, voglia spulciare sui canzonieri di De Gregori e Mogol, non vivrà un’esperienza poi così diversa da quella che avrebbe vissuto scorrendo le pagine delle ottime raccolte di Magrelli. Anzi, ho il sospetto che proprio la musicalità a cui il verso della canzone tende (in assenza di musica, si badi) potrebbe apparire come piena realizzazione della «forza del linguaggio».
Qui, comunque, vorremmo parlare di poeti – o chiamiamoli pure cantautori – che la gente conosce e ama perché muovono nel senso che fanno ballare, o comunque cantare a squarciagola, e che nessuno si è degnato di prendere nella giusta considerazione.
Le canzonette di Edoardo Bennato (anni ‘70)
In ogni caso, la poesia che «se ne va sicura» e rivendica gelosamente un nome così altisonante è stata seppellita – e ogni resurrezione suona falsa – da poeti come Montale (si legga Non chiederci la parola), Quasimodo (si legga Parola), Gozzano (per lui la poesia è una «buona cosa di pessimo gusto»), Corazzini (Io non sono un poeta) e tanti altri, in Italia e fuori d’Italia.
Così, genialmente, prevenendo i Magrelli surcigliosi, Edoardo Bennato, mentre sfornava capolavori come L’Isola che non c’è, con un meraviglioso testo sull’incanto delle illusioni; come Il gatto e la volpe, feroce critica alla società consumistica e alle blandizie che mascherano la competitività di uno star-system assurto a livellatore di rapporti in generale; come Il rock del capitan Uncino, sulla crudeltà fascinosa e criminale del Potere… mentre faceva tutto questo, insomma, Bennato si premurava di dire che le sue erano «solo canzonette» (si veda appunto la canzone Sono solo canzonette), da ballare sul piano martellante su cui si stagliano gli assoli dell’immancabile sax, o da godere spensieratamente sulle dolci note dell’armonica intessute al suono rozzo e al contempo pulito della chitarra acustica. Tale è il pudore tipico dei grandi.
L’amore e l’evasione con Finardi (anni ‘80)
«C’era un tipo che viveva in un abbaino / per avere il cielo sempre vicino»
Così inizia Extraterrestre, capolavoro di Eugenio Finardi. E il «tipo», sentendosi alieno sulla terra, arriverà a pregare gli alieni veri e propri di rapirlo, sicuro che così la sua vita potrà svoltare per il meglio:
«Extraterrestre, portami via! / Voglio una stella che sia tutta mia! / Extraterrestre, vienimi a cercare: / voglio un pianeta per ricominciare».
Ma nulla veramente cambierà, se non dopo una prima ubriacatura di «nuovo»: non si può sfuggire ai propri pensieri, alle angosce connaturate all’esistenza umana, miserevole sogno di un’ombra. Eppure, è proprio il sogno di evasione, il tentativo, il cercare invano, a dar colore e sapore alla nostra vita, e forse sentirci «alieni» è l’unico modo per creare nuovi mondi: ovviamente immaginari. Inesistenti?
Finardi ci delizia, inoltre, con canzoni d’amore (si vedano almeno La forza dell’amore e Patrizia) che se da un lato non recano tracce di stucchevole sentimentalismo, e che allo scopo pervengono velandosi d’ironia anche nella forma post-moderna e dire-straitsiana della citazione, d’altro canto non paiono rassegnate al cinismo apatico che, manierato, imperversa e imperversava in tanta musica «ribelle»: ed è appunto la Musica ribelle a chiamare con suoni indistinti a quell’indistinto e mal certo percorso che è la vita.
Degno di nota, infine, il (non) rapporto, ironico, antagonistico e al contempo tenero, del cantautore con Dio, al centro dell’ormai classico E se Dio fosse uno di noi? e del più recente E tu lo chiami Dio?
Si conclude, senza commenti, con i primi versi:
«Vorrei volare ma non posso, / e resto fermo qua / su questo piano che si chiama terra / ma la terra si ferma… / Appena io mi rendo conto / di avere perso la metà del tempo / quello che mi resta è di trovare un senso / ma tu, sembri ridere di me».
Andrea Monti per Questione Civile
Sitografia
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