La storia della battaglia di Little Bighorn
La battaglia di Little Bighorn, o Custer’s Last Stand, (25-26 giugno 1876), è tra gli scontri più significativi nella storia delle guerre indiane. Lo scontro si tenne nei pressi del fiume Bighorn, noto anche come Great Horn River, nelle pianure del Montana. Questa battaglia rappresenta una delle vicende più drammatiche del conflitto tra il governo degli Stati Uniti e i nativi americani. Un confronto epocale nella storia americana che, andando oltre il fatto d’armi in sé, è divenuto leggenda.
La conquista del West e gli attriti con i nativi americani
Nella seconda metà dell’800 si assistente all’inizio della conquista del vecchio e selvaggio West da parte degli statunitensi. Questa espansione era ispirata dall’ideologia del “Destino Manifesto”, basata su tre idee principali:
1) missione divina;
2) superiorità culturale e politica;
3) espansione inevitabile.
La campagna di espansione territoriale risultò particolarmente aggressiva nei confronti degli indiani d’America. Sebbene talune tribù decisero di arrendersi dinanzi alla loro fatale sorte, alcune decisero di impugnare le armi per difendere la propria terra. Tra queste tribù guerriere si possono ricordare gli Arapaho, gli Apache, i Cheyenne ed i Sioux, che consideravano sacri i territori delle Grandi Pianure.
I principali protagonisti: il tenente colonnello Custer, Toro Seduto e Cavallo Pazzo
Il tenente colonnello George Armstrong Custer (1839-1876), comandante del 7° Reggimento di Cavalleria, è noto per aver preso parte alle guerre indiane. Nato a New Rumley (Ohio), sebbene di indole indisciplinata, si distinse come cadetto presso l’Accademia Militare di West Point. Il suo carattere – che lo portò ad essere considerato un “cacciatore di gloria” – era un misto tra impulsività, coraggio, leadership e arroganza. A soli 23 anni, nel corso della Guerra civile americana, raggiunse il grado di generale di brigata dell’esercito dell’Unione. Durante la sua carriera militare, la sete di fama aveva portato Custer a sottovalutare in molte circostanze la forza del nemico sul campo di battaglia.
Toro Seduto, nato nel 1831, fu capo tribù dei Sioux Hunkpapa. Egli assunse il ruolo di leader spirituale del suo popolo, riunendo e guidando le tribù alla resistenza contro l’invasore bianco. Durante un’evasione, egli aveva predetto una gloriosa vittoria contro le giacche blu: questo fu sufficiente per porlo alla guida di una grande coalizione di tribù. Dopo la battaglia del Little Bighorn, una serie di disfatte militari lo costrinsero a riparare in Canada. Tornò negli Stati Uniti nel 1881, accettando di vivere in una riserva. Venne ucciso nel 1890, nel corso di un arresto legato alla ribellione del movimento Danza degli Spiriti.
Cavallo Pazzo, nato intorno al 1840, fu un condottiero appartenente alla tribù degli Oglala Lakota (Sioux). Egli aveva fama di essere un grande stratega, nonché un guerriero formidabile ed impavido. Tra i principali protagonisti della Battaglia di Little Bighorn, si rifiutò di accettare di essere confinato in una riserva. Morì in Nebraska nel 1877, pugnalato a tradimento da un soldato dopo essersi arreso per proteggere la sua tribù.
La situazione anteriore alla battaglia
Nel 1868, col trattato di Fort Laramie il governo statunitense aveva assicurato il controllo delle Black Hills ai capi Sioux. Tuttavia, con la scoperta dell’oro in tale regione, la situazione precipitò velocemente. Infatti, migliaia di minatori, colti dalla “febbre dell’oro” si precipitarono nel Dakota del Sud con la speranza di fare fortuna cercando il prezioso metallo. La presenza dei coloni e dei minatori fu ovviamente malvista dalle tribù della zona, che considerarono violato l’accordo stipulato anni prima. Il primo disastroso risultato fu la riduzione dei territori delle riserve, dove i nativi vivevano in una condizione di segregazione. È in questo contesto che sorsero leader carismatici come Toro Seduto e Cavallo Pazzo.
Nel maggio 1876 Sioux, Sioux Hunkpapa, Oglala Lakota, Cheyenne, Arapaho, Comanche e Kiowa si erano radunati presso il fiume Bighorn. Secondo le fonti dell’epoca, sul posto erano presenti tra le 8.000 e le 10.000 persone, tra le quali 2.000 guerrieri circa. Temendo una situazione di crisi, il generale Alfred Terry e il tenente colonnello Custer furono inviati a localizzare e attaccare queste tribù.
Il reggimento di Custer partì il 22 giugno 1876, con l’intento di giungere presso il Little Bighorn il 26 giugno. Tuttavia, dopo tre giorni di marce forzate, il tenente colonello e i suoi uomini giunsero sul luogo con un giorno di anticipo. Gli scout indiani di Custer, della tribù degli Arikara e Crow, avvistarono dalla cima del Crow’s Nest il grande accampamento. Quando Custer giunse nello stesso luogo per osservare l’accampamento questo non era più visibile, probabilmente a causa della limpidezza dell’atmosfera e della posizione del sole. Pertanto, Custer non potè avere una precisa cognizione sull’esatta dimensione e posizione del villaggio.
La battaglia di Little Bighorn: la sconfitta di Custer
Dopo questa analisi frettolosa, Custer decise di dividere il 7° Reggimento di Cavalleria, composto da 647 unità, in tre battaglioni. Custer comandava il primo battaglione; il secondo era guidato dal maggiore Marcus Reno; il terzo era sotto la guida del capitano Frederick Benteen.
Data la fretta delle decisioni intraprese, Custer non attese nemmeno l’arrivo dei rinforzi, in quanto – a suo dire – si sarebbe sprecato solo tempo prezioso. Il Figlio della Stella del Mattino (nome che era stato attribuito a Custer dagli indiani), tuttavia, non poteva immaginare le disastrose conseguenze della sua decisione.
Custer avanzò con 210 uomini verso il luogo nel quale sorgeva il villaggio principale dei nativi, con l’intento di coglierli di sorpresa con un’azione fulminea. Nel frattempo, da uno dei muli delle salmerie era caduta una scatola di gallette, che due ragazzi indiani ritrovarono.
Questi compresero l’imminente pericolo e corsero al villaggio per dare l’allarme. Uno di loro fu ucciso dai soldati, l’altro riuscì a scappare ma, ironia della sorte, giunse all’accampamento a battaglia già conclusa. Giunti in vista dell’accampamento e dato l’ordine di caricare, in pochi minuti il battaglione si ritrovò travolto dalla soverchiante forza dei guerrieri nativi. Contemporaneamente, anche Benteen e Reno furono sopraffatti dal nemico, che costrinse entrambi a ritirarsi e mantenere le proprie posizioni fino al 26 giugno. Fu solo l’arrivo del generale Terry e del colonnello John Gibbon a salvare la vita degli uomini superstiti.
«Hoka Hey!»
(Oggi è un buon giorno per morire!)
Grido di guerra di Cavallo Pazzo
La vittoria della coalizione indiana
I guerrieri indiani, guidati in battaglia da Toro Seduto, Cavallo Pazzo, Fiele e Stella del Mattino riuscirono a sopraffare e annientare le giacche blu con estrema facilità. La battaglia durò una decina di minuti (dalle 16:27, quando Custer scese dalle colline e fino alle 17:10, quando si udirono gli ultimi spari). Il generale e i suoi uomini rimasero uccisi nell’azione. In totale, l’esercito statunitense perse 258 soldati, più 10 dipendenti civili.
Il recupero dei corpi dei caduti del 7° Reggimento di Cavalleria
Il 27 giugno, un drappello di soldati sotto la supervisione del capitano Benteen fu inviato alla ricerca di sopravissuti sul campo di battaglia. I corpi dei caduti vennero localizzati e identificati (laddove possibile, dato che le ferite e l’esposizione all’aria aperta avevano accelerato la decomposizione dei corpi).
Si procedette inoltre col dare una sepoltura provvisoria, ricoprendo i cadaveri con fango e artemisia. Solo a partire dal 1877 i resti dei caduti poterono ottenere una degna sepoltura. Quattro ufficiali e quattordici soldati vennero dati per dispersi, e nei successivi anni non si ebbe più alcuna notizia di loro.
La maggior parte dei corpi dei caduti aveva subito orrende mutilazioni. In particolare, alcuni soldati furono scalpati, altri mutilati ed altri ancora squarciati: il tutto era avvenuto secondo le pratiche rituali dei nativi. Inoltre, gli indiani avevano sottratto ai cadaveri dei loro nemici i vestiti, le armi e gli effetti personali. Il cadavere di Custer risultava denudato, salvo delle calze. Il corpo di Custer presentava ferite da arma da fuoco al petto e alla tempia (quest’ultima aveva fatto pensare ad un ipotetico suicidio).
Inoltre, presentava tagli lungo le cosce, realizzati con un pugnale Sioux, e l’amputazione dell’indice destro. Secondo alcune voci non confermate, alcuni punteruoli erano stati utilizzati per perforargli i timpani e una freccia gli era stata infilata lungo l’uretra. Le offese procurate postumamente a Custer, secondo le credenze native, non gli avrebbero così consentito di poter cacciare, udire e procrearsi nelle Verdi Praterie (l’aldilà).
Inoltre, prima che i ricognitori del 7° Reggimento giungessero, gli indiani avevano già portato via la maggior parte dei propri caduti. Dei nativi morti quel giorno non è dato sapere l’ubicazione esatta delle sepolture. Si stima che le perdite indiane furono dalle 30 alle 300.
L’unico sopravvissuto del battaglione di Custer: il trombettiere Giovanni Crisostomo Martini
Dei 210 uomini del battaglione uno solo sopravvisse. È il caso particolare di Giovanni Crisostomo Martini, noto soprattutto col nome statunitense di John Martin (1852-1922). Nel 1866, Martini era stato tamburino nel Corpo Volontari Italiani di Giuseppe Garibaldi, impegnato nella campagna militare in Trentino. Nel 1867 era stato di nuovo tra le fila garibaldine nella battaglia di Mentana. Sbarcato il 1 giugno 1874 a Castle Clinton a New York, si arruolò come trombettiere nell’esercito statunitense, venendo assegnato allo squadrone H del 7° Reggimento.
Nei momenti antecedenti alla battaglia di Little Bighorn, era stato lo stesso Custer a mandare Martini a chiedere rinforzi al battaglione rimasto di retroguardia. Il tenente William W. Cooke, per timore che il giovane soldato italiano non avesse compreso il messaggio da recapitare, lo scrisse su di un biglietto e glielo consegnò:
“Benteen. Come On. Big Village. Be Quick. Bring Packs. W.W. Cooke. P.S. Bring packs”
(“Benteen raggiungici. Un grande villaggio. Fai presto. Porta le salmerie. W.W. Cooke. P.S. Porta le salmerie”)
Tale messaggio, tuttavia, non giunse mai in tempo, dato che Martini raccontò che, una volta allontanatosi, sentì subito giungere le prime scariche di fucileria.
Martini si ricongiunse con Reno e Benteen, nella posizione che questi avevano scelto per resistere all’offensiva indiana. Lo stesso Martini, alle ore 5:00 del mattino del 26 giugno, risvegliò i suoi commilitoni suonando la sveglia con la sua tromba. Di contro, i nativi schernirono i soldati soffiando nelle trombe che avevano sottratto ai trombettieri caduti nella battaglia del giorno prima.
Gli altri italiani al Little Bighorn
Oltre Martini, anche altri italiani furono protagonisti della battaglia e, incredibilmente, tutti sopravvissero allo scontro. Tra questi possiamo ricordare Carlo Di Rudio, Felice Vinatieri, Francesco Lombardi, Agostino Luigi Devoto, Giovanni Casella, Alessandro Stella, Giuseppe Tulo e Francesco Lambertini.
Tra questi, di particolare interesse è la storia del Conte Carlo di Rudio (1832-1910), all’epoca dei fatti tenente del 7° Reggimento di Cavalleria. Di Rudio faceva parte di una colonna sotto il comando del maggiore Reno, con l’obiettivo di attaccare il villaggio indiano. Nel corso della manovra militare eseguì con perizia gli ordini che gli erano stati dati, ma si ritrovò presto circondato da migliaia di guerrieri. Seguì una disperata ritirata della colonna e Di Rudio, rimasto indietro con alcuni uomini, riuscì a scampare miracolosamente alla morte nascondendosi in un boschetto. Di Rudio si ricongiunse con Reno solo a battaglia finita, dopo 36 ore.
Di Rudio era disprezzato da Benteen, che lo aveva soprannominato “il conte che non conta”. Anche Custer considerava il tenente italiano “un conclamato brontolone e un intrigante nato […] il peggiore tra tutti i tenenti di questo reggimento”. Negli anni precedenti, Di Rudio, mazziano bellunese, era stato recluso nel penitenziario dell’Île de Ré dopo il fallito attentato a Napoleone III di Francia.
Felice Vinatieri (1834-1891) fu un musicista e compositore torinese, direttore della banda musicale del 7° Reggimento di Cavalleria. La banda musicale non fu presente sul luogo della battaglia, in quanto assegnata al reparto d’appoggio dislocato sul battello Far West, ormeggiato sul fiume Powder. Probabilmente sullo stesso battello si trovavano anche Francesco Lambertini e Francesco Lombardi, confinati in infermeria. Agostino Luigi Devoto e Giovanni Casella erano entrambi inquadrati nelle unità di salmerie sotto il comando del maggiore Reno.
Le conseguenze dello scontro
La battaglia di Little Bighorn viene ancora oggi ricordata dai nativi americani come la più gloriosa delle vittorie contro l’esercito statunitense. Tuttavia, se da un lato è lecito riconoscere questo, dall’altro bisogna ricordare che la vittoria degli indiani, tutto sommato, fu effimera. Infatti, l’opinione pubblica statunitense fu profondamente segnata dalla notizia della fine di Custer e dei suoi uomini. Il risultato fu un aumento esponenziale del sostegno per un’azione militare più decisa e repressiva contro i nativi. Le tribù Sioux e Cheyenne furono così schiacciate nel giro di pochi anni.
Il trattato di Fort Laramie, oramai divenuto carta straccia, non fu più produttivo di alcune effetto giuridico. Ciò ebbe come conseguenza l’espropriazione delle Black Hills e il confino nelle riserve del popolo Sioux.
La battaglia di Little Bighorn come simbolo di resistenza dei nativi americani
La battaglia di Little Bighorn è ricordata dai nativi come un simbolo di resistenza. Se in un primo momento, infatti, Custer venne celebrato come un eroe, nel corso degli anni l’idea su di lui è cambiata radicalmente. Del tenente colonello del 7° Reggimento di Cavalleria oggi se ne ricorda principalmente l’imprudenza, la quale portò al macello centinaia di uomini. Dal canto loro, invece, Cavallo Pazzo e Toro Seduto vengono ricordati e venerati come eroi della libertà dai discendenti delle tribù delle Grandi Praterie.
A livello storico, la battaglia di Little Bighorn assume due importanti significati. Il primo è dato dalla vittoria dei nativi sull’esercito degli Stati Uniti, a dimostrare come la volontà di sopravvivere sia capace di realizzare grandi imprese. Il secondo, invece, è un triste manifesto delle conseguenze che l’espansione verso Ovest trascinò con sé. Questa importante battaglia sottolinea in maniera incredibile la brutalità di quel periodo storico, nel quale i popoli indigeni venivano schiacciati dalla necessità di colonizzare nuovi territori.
Il luogo della battaglia di Little Bighorn, il “Little Bighorn Battlefield National Monument” è oggi simbolo sia dell’omonimo evento, sia di quel tragico periodo. Tra le lapidi di coloro i quali caddero nel corso dello scontro oggi non si aggirano spettri, ma il ricordo del coraggio e della resistenza. Lo stesso coraggio e la stessa resistenza che possono sì essere messi a dura prova, ma che sopravvivono agli attori umani di queste vicende. Il Little Bighorn, inoltre, è anche un monito di come la storia possa insegnarci a comprendere e rispettare le diverse e articolate prospettive umane. La battaglia di Little Bighorn rimane un evento epocale, nonché una pietra miliare delle vicende che hanno reso leggendario il Far West.
Saverio Francesco Frega per Questione Civile
Bibliografia
D. H. Miller, L’ultima vittoria degli indiani. Little Bighorn e la disfatta del generale Custer, Res Gestae, Parma, 2014
P. T. Tucker, Death at the Little Bighorn. A nex look at Custer, his tactics, and the tragic decisions made at the last stand, Skyhorse Publishing, New York, 2017
Sitografia
www.biografieonline.it
www.britannica.com
www.farwest.it
www.treccani.it
www.worldhistory.org