Il folklore e il (falso) mito dell’identità culturale
Il folklore, con le sue narrazioni popolari, rappresenta uno strumento insostituibile per la costruzione del senso di appartenenza e dell’identità culturale di una comunità. Attraverso fiabe, miti e leggende si tramandano non solo valori e credenze, ma anche una visione del mondo condivisa, che rafforza l’identità culturale e favorisce la coesione sociale. Ogni racconto popolare custodisce un frammento di storia, una morale o un insegnamento che, sebbene soggetto al mutare dei tempi, rimanda sempre alle proprie origini.
Queste storie, spesso radicate nella quotidianità delle generazioni passate, fungono da ponte tra passato e presente, mantenendo vivo il legame con le radici culturali e fornendo una base comune su cui fondare l’identità collettiva. Fiabe e leggende non sono solo strumenti di intrattenimento, ma veri e propri archivi di memoria storica, capaci di resistere al tempo grazie alla loro trasmissione orale e scritta.
Se questi concetti possono essere considerati acquisiti nei precedenti articoli di questa rubrica, stavolta ci addentreremo in un terreno più scivoloso, non privo di possibili risvolti politici.
Il folklore come specchio dell’identità culturale
Ogni comunità esprime nel folklore i propri tratti distintivi, creando un immaginario che riflette valori ed eventi storici. Le fiabe e le leggende, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, non sono mai politicamente neutrali: esse incarnano le visioni del mondo di chi le ha create e tramandate, veicolando significati profondi e (presumibilmente) condivisi.
Un esempio emblematico è costituito dalla raccolta di fiabe italiane pubblicata da Italo Calvino nel 1956. In queste storie, personaggi come il contadino astuto o l’eroe povero che sconfigge il tiranno rappresentano una concezione profondamente radicata della giustizia sociale e della forza dell’ingegno. Questi racconti trasmettono, cioè, modelli di comportamento che rispecchiano una società capace di valorizzare la resilienza e l’adattabilità di fronte alle avversità di vario tipo che potevano colpire i ceti più poveri della società. Guerre, carestie, epidemie, capovolgimenti politici: nelle narrazioni popolari tutto questo c’è, pur senza riferimenti espliciti a quel sovrano o a quella malattia.
Allo stesso modo, le leggende nordiche, come quelle sui troll o sui guerrieri vichinghi, incarnano valori di forza, coraggio e rispetto per la natura, elementi fondanti dell’identità culturale scandinava. Esse riflettono un profondo senso di connessione con il paesaggio e l’ambiente naturale, che in Nord Europa assumono connotati tanto spettacolari quanto ostili alla presenza umana, condizionandola inevitabilmente. Non sorprende, dunque, che nel folklore nordico la natura sia popolata di misteriose presenze, capaci di sopravvivere anche alla cristianizzazione. Troll, elfi, streghe e spiriti resistono nelle ansie dei popoli che, pur credendo in Dio, tentavano comunque di dare una spiegazione ai pericoli nascosti nei boschi e sui monti del gelido entroterra scandinavo.
Identità culturale o memoria collettiva?
Ci si potrebbe a questo punto chiedere se il folklore vada inquadrato più come simbolo di identità culturale o come deposito della memoria collettiva. Si tratterebbe, tuttavia, di una domanda capziosa e poco sensata, perché l’unica risposta possibile sarebbe: “entrambi”. Tutto ciò che viene prodotto da un popolo, di fatto, è cultura, e tutto ciò che è cultura finisce inevitabilmente per alimentare la memoria dell’intero gruppo umano, in un circolo vizioso senza fine. Questa duplice natura è particolarmente evidente nei miti fondativi, che narrano le origini di una comunità e/o ne definiscono il ruolo nel mondo.
I miti greci, ad esempio, vanno oltre la semplice spiegazione di fenomeni naturali o eventi storici. Essi consolidano l’identità ellenica attraverso racconti come quello di Prometeo, simbolo della lotta per la conoscenza, o di Ulisse, che incarna la resilienza e l’adattamento a situazioni avverse. Chiunque conosca la storia di Atene e delle altre póleis non potrà non riconoscere archetipi comportamentali e attitudinali che hanno plasmato non solo la storia greca, ma l’intera cultura occidentale.
Spostandoci altrove, le dinamiche non cambiano. Il Dreamtime, l’universo della cosmologia aborigena, ispira una profonda connessione con la natura nei popoli che popolano l’Australia da ben prima che vi arrivassero gli europei. Questi miti rafforzano il legame spirituale con il territorio e sottolineano non solo l’importanza della sostenibilità e dell’armonia con l’ambiente, ma anche la necessità di resistere alle istanze colonizzatrici del passato e del presente. Per esempio, è stato proprio questo sistema di credenze a spingere nel 2019 il governo australiano a una decisione storica: vietare la scalata di Uluṟu. Questo massiccio roccioso nel bel mezzo del terrificante outback australiano, infatti, è stato scalato per decenni dai turisti, nonostante le comunità aborigene chiedessero di non farlo, vista la sacralità del luogo.
L’identità culturale tra eroi e antieroi
Senza il sostegno di un apparato folklorico e mitologico, questo risultato probabilmente non sarebbe mai stato raggiunto. Un aspetto centrale delle narrazioni popolari è poi la presenza di figure archetipiche come eroi, antieroi e trickster (letteralmente “ingannatore, imbroglione”), che incarnano i valori e le contraddizioni di una comunità. Questi personaggi, cioè, sono strumenti narrativi attraverso cui le società esplorano dilemmi morali, celebrano virtù o esorcizzano paure collettive, diventando simboli di una certa identità culturale.
Robin Hood, ad esempio, rappresenta l’archetipo dell’eroe che, rubando ai ricchi per dare ai poveri, combatte per la giustizia sociale, opponendosi alle angherie dei potenti. Questo personaggio della tradizione inglese è un simbolo universale di speranza e resistenza ad ogni costo, nascondendo però dietro di sé una questione squisitamente politica: è giusto infrangere la legge se lo scopo è rimediare alle ingiustizie sociali?
Il folklore non offre una risposta definitiva a questa domanda, ma se il caso di Robin Hood può indurre a rispondere affermativamente, diverso è il caso del trickster par excellence di numerose culture dell’Africa occidentale: Anansi, il dio ragno. Egli incarna la figura dell’antieroe, disposto a ingannare chiunque e a violare patti pur di raggiungere i propri obiettivi, che solitamente coincidono con il semplice soddisfacimento del proprio ego personale. A questo punto, qualcuno potrebbe facilmente concludere che, se un comportamento del genere è adottato da un dio, deve essere legittimo anche per gli uomini: le ricadute sociali e politiche di un simile (eventuale) ragionamento sono evidenti.
Dal locale al globale: il folklore oggi
Con l’avvento della globalizzazione e delle tecnologie digitali, il folklore ha inoltre trovato nuove modalità di diffusione, andando verso un’inevitabile reinterpretazione. Le narrazioni popolari, un tempo radicate in contesti locali, sono oggi accessibili a livello globale, influenzando culture diverse e adattandosi a nuovi media. Questo processo di universalizzazione del folklore ne ha accresciuto la rilevanza, trasformandolo in un patrimonio condiviso capace di oltrepassare confini geografici e culturali. Un esempio significativo è rappresentato dalla rinascita di festività celtiche come Beltane e Samhain, oggetto di un vero e proprio revival neopagano che intende recuperarne almeno parzialmente i significati originari, non sempre con successo. Tali feste erano infatti legate originariamente al calendario agricolo, dei cui ritmi però oggi in pochi possono dirsi realmente a conoscenza.
Il caso più celebre, tuttavia, è quello di Halloween, le cui presunte origini pagane (o celtiche) sono da tempo messe in discussione: per esempio, in un articolo del 2019 pubblicato su Vatican News, Christopher Wells affermò esplicitamente che Halloween fosse una festa con origini cattoliche, tesi condivisa anche in gran parte degli stessi ambienti cattolici. Tuttavia, volendo essere onesti, di queste radici cattoliche non sembrerebbero essere rimaste molte tracce oggi, come testimonia il fatto che all’interno dello stesso mondo cattolico alcuni osteggiano ferocemente questa festa. Segno, appunto, di una trasformazione radicale ormai avvenuta, che ha reso il significato originario talmente opaco da essere oggetto di discussione.
Anche il cinema e la letteratura hanno avuto un ruolo centrale nella globalizzazione del folklore. Film come quelli dello Studio Ghibli, profondamente ispirati alle tradizioni giapponesi, hanno reso accessibili al pubblico internazionale miti e leggende locali. Ne sono alcuni esempi film acclamati dalla critica come Il mio amico Totoro oppure Princess Mononoke, che hanno portato una platea globale a confrontarsi (ed eventualmente riconoscersi) con tematiche tipiche della cultura locale nipponica.
Un messaggio politico?
In conclusione, il folklore non è un semplice residuo del passato, ma una risorsa viva e dinamica che dimostra come le identità culturali siano in costante evoluzione. La capacità del folklore di adattarsi e trasformarsi, pur mantenendo un legame con le sue radici, mette in evidenza che non esistono identità statiche e immutabili.
Questa dimensione dinamica va sottolineata con forza, perché costituisce un antidoto contro le strumentalizzazioni politiche che tentano di cristallizzare le tradizioni in forme rigide o di usarle per giustificare esclusioni e conflitti. L’idea di un folklore come patrimonio immutabile non solo è totalmente falsa, ma rischia soprattutto di trasformare una risorsa culturale in un pretesto per opporsi all’innovazione o al dialogo interculturale. Al contrario, riconoscere la natura mutevole del folklore significa accettare che l’identità è un processo di negoziazione continua con tutto ciò e tutti coloro che ci circondano. Non esistono identità definite una volta per tutte, né dal punto di vista culturale né da nessun altro punto di vista.
Altrettanto falsa è l’immagine del folklore come un elemento politicamente neutro. La dimensione politica, intesa nel senso aristotelico di “organizzazione sociale”, è una presenza molto forte negli elementi costitutivi del folklore, facilmente percepibile se si scava sotto la superficie.
Proteggere e valorizzare il folklore non significa quindi cristallizzarlo in forme museali e asettiche, ma apprezzarlo per tutte le sue sfumature e tutte le sue variazioni. In questo senso, il folklore diventa uno strumento non solo di memoria, ma anche di innovazione e coesione sociale, capace di unire generazioni e mentalità in un dialogo costante da ascoltare senza preconcetti. In caso contrario, il rischio è quello di inventare tradizioni popolari mai esistite in realtà, usandole come clave contro nemici altrettanto immaginari.
Francesco Cositore per Questione Civile
Bibliografia
- Calvino, I. (1956). Fiabe italiane. Torino, Einaudi.
- Dundes, A. (1989). Folklore Matters. University of Tennessee Press.
- Thompson, S. (1946). The Folktale. University of California Press.
- Hobsbawm, E. & Terence, R. (a cura di) (1987). L’invenzione della tradizione. Torino, Einaudi.
- Turner, V. (1969). The Ritual Process: Structure and Anti-Structure. Aldine Transaction.
Sitografia
- Wells, C. (2019). The Catholic roots of Halloween, the Vigil of All Saints’ Day. www.vaticannews.va.