Tolkien: la differenza tra un autore e uno scrittore
John Ronald Reuel Tolkien è un campione esemplare per documentare la discrasia tra le figure dell’autore e dello scrittore.
Nel suo celebre saggio La mort de l’auteur (1968), il teorico della letteratura Roland Barthes traccia una nitida disparità tra le figure dell’Autore – nel testo rigorosamente con la maiuscola – e lo «scrittore moderno», spiegando come la seconda abbia ormai sostituito e soppiantato la prima:
Nei tempi recenti l’enunciazione non ha altro contenuto […] che l’atto stesso con il quale si enuncia; […] lo scrittore moderno, dopo aver sepolto l’Autore, non può più credere, come facevano pateticamente i suoi predecessori, […] egli debba lavorare all’infinito la propria forma; per lui, al contrario, la sua mano, staccata da qualsiasi voce, guidata da un puro gesto di inscrizione […], traccia un campo senza origine.
Si configura così un’accezione dello scrittore “meccanica”, quasi robotica. Da una parte, il fare artigianale dell’autore, meticoloso, attento alla forma; dall’altro, l’agire industriale dello scrittore, forse più efficiente ma meno lavorato.
Vale la pena soffermarsi brevemente anche sull’affermazione finale, «traccia un campo senza origine»: la scrittura dello scrittore appare, secondo Barthes, autotelica e autosufficiente, comunicante con nulla al di fuori di sé stessa, nata quasi per autogenesi; non esiste, perciò, tradizione.
Lo scrittore scrive e basta, senza riferimenti o legami ad alcunché fuori dall’atto stesso di scrittura; qualcosa che per l’autore è inconcepibile e impraticabile. Insomma, l’autore studia, lo scrittore inventa.
Tolkien e il pedaggio per l’era neomediatica
Tolkien è uno dei nomi più conosciuti e radicati all’interno della cultura del nuovo millennio, grazie soprattutto alla straripante convergenza intermediale di cui è stato protagonista tra cinematografia, arti visive, esperienze videoludiche; in una sola parola, è divenuto tradizione.
D’altra parte, ogni tradizione è sempre un tradimento; si tratta di una fama estensiva, non certo intensiva, che per un’eco più lontana richiede una semplificazione del timbro della voce altrimenti ben più variopinta. La divulgazione mediatica è un Satana faustiano che per i propri servigi richiede un prezzo alto da pagare: la profondità, costretta in superficialità.
Per assurgere a totem culturale Tolkien ha dovuto suo malgrado sacrificare la sua anima più intrinseca, quella di studioso della letteratura e del folklore germanici. Non molti sanno – o dànno per scontato, che è peggio – che Tolkien, prima di essere lo scrittore fantasy che tutti apprezzano, è stato docente di filologia anglosassone all’Università di Oxford, uno dei più grandi esperti del patrimonio norreno, nonché fine linguista e glottoteta. Anzi, va sottolineato che l’attività di ricerca è sempre stata quella primaria, e quella scrittoria ne è stata una diretta conseguenza.
Ricollegandoci a quanto detto prima, possiamo dire che Tolkien è stato declassato da autore a scrittore. La sua opera, da architettura complessa, è stata livellata in una facciata affascinante ma mancante della profondità concettuale originale.
Tolkien non si è limitato a scrivere romanzi accattivanti perché dotato di una buona capacità prosastica e di una strabiliante fucina inventiva; Tolkien è stato innanzitutto uno studioso autorevole che ha impiegato le sue conoscenze come materiale fondativo di una fantasia che cela ben più di quanto appaia ad un primo sguardo.
Una Terra di Mezzo senza archeologia
Si sa: l’industria culturale e narrativa non ha bisogno di autori, ma solo di scrittori. La Terra di Mezzo che abbiamo imparato a conoscere poggia, infatti, su un terreno fertile ma superficiale e ha perso la storia geo-archeologica che la contraddistingueva.
I sostrati mitici, i riferimenti folcloristici, i debiti intertestuali sedimentati nel sottosuolo dell’opera sono stati spianati per rendere la superficie del mondo raccontato più divulgabile. Secondo l’ottica attuale non sempre le macchine con più ingranaggi e cavi sono quelle che funzionano meglio, o almeno non più.
Risulterebbe allora proficuo restituire all’opera di Tolkien quella profondità sottratta, scavare tra le pieghe del testo e riesumare i resti di un patrimonio narrativo fondamentale.
Perché le avventure degli Hobbit e di un pericoloso anello malvagio devono più di quanto si immagini alle opere più rappresentative della cultura nordica, quali l’Edda poetica e in prosa, il Beowulf, il Nibelungenlied.
In questa sede voglio perciò discutere di un brano de The Hobbit a prima vista banale e innocuo ma in realtà sorprendentemente stratificato. Esso testimonia quanto l’opera di Tolkien si fondi su una precisa rete intertestuale di riprese, echi e rivisitazioni nei confronti del macrocosmo filologico di provenienza germanica.
Bilbo contro Gollum: una sfida enigmistica
Ci troviamo verso metà del romanzo, in una scena che i conoscitori della saga non hanno reticenze a definire il motore di tutti gli avvenimenti che di lì in poi si susseguiranno e andranno a costituire il plot de The Lord of the Rings: la gara di indovinelli tra l’Hobbit Bilbo Baggins e la creatura mostruosa conosciuta come Gollum.
Bilbo – dopo aver rubato l’Unico Anello a Gollum senza essere visto, è importante ricordarlo – rimane prigioniero nella tana dell’essere malvagio. Solo la repentina astuzia – nonché la vivida curiosità del mostro – riescono a posticipare l’interruzione brusca delle vicende narrate. L’Hobbit sfida l’avversario in una competizione di indovinelli, il vincitore della quale potrà disporre liberamente della vita dello sventurato protagonista del romanzo.
La gara di indovinelli: un topos transculturale
Ora, va immediatamente segnalato come tale soluzione narrativa non sia affatto una fantasiosa invenzione di Tolkien: al contrario, si tratta di un topos, di una sequenza cristallizzata, abbastanza frequente non solo nel campo nordico ma nell’intero patrimonio mitico occidentale – basti pensare alla Sfinge contro Edipo, a Salomone contro la Regina di Saba, e così via.
In numerosi racconti provenienti dalle più antiche civiltà, molte dispute – anche legali e giudiziarie – venivano risolte tramite un match tra enigmisti. Durante tali occasioni due contendenti proponevano a turno un indovinello all’avversario augurandosi di volta in volta che l’altro fosse incapace di rispondere.
La principale ricorrenza di questa pratica proviene dalla mitologia norrena. Il dio Odino, conosciuto proprio per la sua astuzia e per la sua sapienza a tratti enigmistica, era solito viaggiare tra i Nove Regni travestito da viandante al fine di sfidarne gli abitanti in gare di indovinelli. Celebri sono i suoi scontri con il gigante Vafthrudnir e re Heidrek, conclusisi entrambi con la vittoria del dio.
E sono proprio le modalità di questa vittoria che bisognerebbe esplorare per capire quanto la macchina narrativa di Tolkien sia ingegnosa e stratificata, nonché fondata su un’eredità mai davvero invisibile.
Il neck-riddle di Odino
Gli avversari di Odino si dimostrano tenaci: entrambi rispondono a ciascuno degli indovinelli del dio, il quale si trova in un’improvvisa difficoltà. Egli decide così di usufruire della propria malevola astuzia, a discapito della propria proverbiale sapienza, proponendo un ultimo indovinello impossibile da risolvere:
“Cosa ha sussurrato Odino all’orecchio del figlio Baldur prima che quest’ultimo venisse cremato?”.
Il dio vince la gara: né Vafthrudnir né Heidrek conoscono la risposta, né tantomeno è possibile che la conoscano. Solo Odino in persona – che, ricordiamolo, in quel momento è travestito da semplice viandante – sa cosa ha sussurrato all’orecchio del figlio prima della sua pira funebre.
Il neck-riddle: caratteristiche essenziali
Odino ha perciò barato? Vafthrudnir e Heidrek hanno diritto ad un ricorso? Non esattamente. Anche quest’ultimo indovinello, che apparentemente un indovinello non è, è un ennesimo tassello del mosaico narrativo di origine nordica che è sopravvissuto fino a noi.
Gli studiosi di folklore lo hanno chiamato Halslösungsrätsel o neck-riddle, dal momento che proviene soprattutto da scene narrative di vita-o-morte, aventi a che fare con una disputa che può concludersi o con la condanna definitiva o con la piena assoluzione dell’imputato. Citando per semplificazione uno dei due esempi precedenti: Sansone è stato condannato a morte, e solo l’utilizzo di un neck-riddle – al quale, per l’appunto, la Regina di Saba non riesce a rispondere – gli dà salva la vita.
Cos’è allora un neck-riddle? In estrema sintesi, alla luce di ciò che ci interessa sapere nel merito di questo articolo, possiamo definire il neck-riddle come un indovinello dalla soluzione impossibile, la cui risposta non deriva da una conoscenza comune, democratica, bensì da un sapere individuale, privato, accessibile solo al riddler stesso.
Tutti sanno che l’essere umano gattona da bambino, è bipede da adulto e ha spesso bisogno di un supporto deambulatorio da anziano; la capacità nello sciogliere l’indovinello della Sfinge edipica dipende semmai dall’elasticità mentale di colui al quale glielo si propone; ma nessuno può sapere le ultime parole di Odino a Baldur, a prescindere da quanta sapienza e intelligenza si possieda.
Il neck-riddle di Bilbo
Torniamo a Tolkien. Anche Bilbo, come Odino, si trova in crescente difficoltà nel suo match contro Gollum. La creatura, per quanto mostruosa e incivile, si dimostra inaspettatamente intelligente – i conoscitori de The Lord of the Rings sanno il perché – e riesce a risolvere con facilità ciascun enigma gli viene proposto, mentre l’Hobbit non sa quanto a lungo sarà in grado di fare lo stesso.
Ecco allora che l’improbabile eroe, imitando decine e decine di protagonisti mitici prima di lui, ricorre proprio ad un neck-riddle – non a caso, è una situazione di vita-o-morte:
“Cosa ho in tasca?”.
La risposta è “l’Unico Anello”, che Bilbo ha precedentemente sottratto a Gollum in un momento di distrazione della creatura; ma, per appunto, il mostro non può saperlo, ed è contemporaneamente triste e piacevole leggere come si scervelli davanti alla risposta, impegnandosi in ragionamenti e riflessioni per certo accurati e plausibili ma del tutto inutili davanti alla rottura del fair play ad opera dell’astuto Hobbit.
La gara viene perciò vinta da Bilbo, il quale, approfittando dello sconforto di Gollum davanti alla sconfitta, fugge portando con sé l’anello e dando vita alla serie di avvenimenti che ben conosciamo.
Conclusione: i meriti dell’autorialità secondo Tolkien
Una scena apparentemente opaca e superficiale riecheggia in verità un’intera tradizione letteraria, riprendendo topoi, motivi, temi e stereotipi provenienti dalla grande narrativa dei tempi passati. Tolkien, scrivendo questo meraviglioso capitolo de The Hobbit, non si limita a congegnare una sequenza stuzzicante come farebbe uno scrittore, bensì estrae dai suoi studi e dalle sue conoscenze una materia prima che è poi esperto nel rimodellare, riplasmare e riproporre come inedito prodotto narrativo.
Questo è il lavoro dell’autore, di quella figura ad oggi tanto scomoda perché incompatibile con le logiche del commercio. Non sempre il talento innato, come magari una straordinaria abilità nell’inventare intrecci o uno stile orecchiabile, può comporre una scrittura di alto livello; lo studio, la preparazione, la conoscenza della letteratura pregressa, sì.
Tale è la differenza – davvero insanabile – tra uno scrittore ed un autore, che Tolkien incarna perfettamente. Il linguaggio del secondo, riprendendo ciò che affermava Barthes, non è mai autotelico e autonomo, bensì ha un’origine ben precisa e ragionata.
Aldo Baratta per Questione Civile