Ridere per ridere? La neo-comicità italiana

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Ridere fin dove siamo arrivati

Questo articolo si propone come un prosieguo del precedente Ridere per ridere? Mostri “vecchi”, nuovi mostri in cui abbiamo analizzato la commedia italiana ad episodi proposta da Risi, Scola e Monicelli. I film dell’articolo erano due pellicole che per quanto fondamentali non hanno propriamente fatto scuola, quanto invece è riuscita a fare un altro tipo di comicità. Eppure, la satira di tali autori ha fatto strada di nascosto, portando a compimento una comicità che ci dispiace definire «di nicchia». Vi proponiamo oggi due pellicole che hanno preso appunti sui Mostri italiani, producendo sentite risate nella critica e nel pubblico.

Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia

Il regista e sceneggiatore Sydney Sibilia propone una trilogia tra il 2014 e il 2017 intitolata con una frase (stereo)tipica quale Smetto quando voglio. Ed è con una frase altrettanto tipica che sciogliamo nel prossimo paragrafo cosa fa questo film: «ridere per non piangere». La storia è quella di un gruppo di ricercatori universitari, diversamente disoccupati e tutti sull’orlo dell’indigenza, che decidono di unirsi creando una droga “legale”, ovvero una sostanza psicotropa non inserita nella lista delle sostanze considerate illegali dallo Stato. Questo l’incipit. Di qui grandi operazioni di chimica, finanza, azione, combattimento, nemici e terroristi da combattere nella patinata Roma del quartiere universitario.

A farci ridere in Smetto quando voglio sono anzitutto i personaggi. Nati dagli stereotipi del mestiere (l’economista donnaiolo, l’archeologo impacciato, e via discorrendo), ognuno dei protagonisti mette in luce ogni sua miseria personale e professionale. Sembrano destinati alle lacrime in ogni operazione che sia di carattere studentesco o di carattere criminale.

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Stefano Fresi (a sinistra) e Edoardo Leo (a destra) in una scena di Smetto quando voglio

Ridere per non piangere

Non basta, per far ridere serve un elemento non banale: un sistema di riconoscimento. Quanto il pubblico riesce a riconoscere della battuta o del contesto di questa, tanto più riuscirà a riderne. È in merito utile una scena di Smetto quando voglio – Masterclass. Durante un inseguimento con il furgone dell’archeologo (Paolo Calabresi) questi decide in primo luogo di attivare il NOS, protossido di azoto, specifica il chimico. E non contento della citazione ad una famosa saga di corse d’auto, decide di fare proprio come in qualsiasi altro film d’azione: «Reggetevi» per andare nella «Roma che non conosci». I nostri attraversano le antiche strade di Villa Adriana ma, a differenza di un film d’azione con stuntman e attori preparati all’inseguimento, distruggono la quasi totalità delle reliquie che incontrano.

Ancora, perché «ridere per non piangere»?

Smetto quando voglio propone un problema intrinseco dell’economia italiana. Un’immagine certo fin troppo assurda a volte, ma pur tutto sommato veritiera: la magra vita dei ricercatori universitari. Che siano dei chimici, dei neurologi, degli economisti, dei latinisti o degli antropologi, i ricercatori italiani sono camerieri, benzinai, professori privati che si fanno pagare in nero. Noi ridiamo perché sappiamo che probabilmente per non tutti è così, eppure tratteniamo un nodo in gola sperando di non fare la loro stessa fine: ciò ci permette di aumentare le contrazioni del diaframma, insomma di piangere e mutando le lacrime in risate.

I Predatori (2020) di Pietro Castellitto

Chi sono i Predatori? A proporre la domanda è Pietro Castellitto, sceneggiatore, regista e attore alla sua prima pellicola. Raccontarne in breve la trama risulta impossibile. Basterà sapere che ci troviamo di fronte a due famiglie: la prima è benestante, culturalmente avanzata, moglie regista, marito oncologo, amici dell’alta borghesia romana; la seconda sopravvive con le entrate provenienti dalla vendita legale e non di armi, fieramente fascista e pericolosamente gerarchica. Allora? Chi è la preda? Chi il Predatore? Solo un finale che scioglie il nodo morale sarà capace di farlo comprendere, ma la risposta non è per niente immediata o scontata.

Pietro Castellitto in una scena de I predatori

Ridere per disprezzare

I Predatori per quanto sia una pellicola amara rimane una commedia. Si ride e molto. Ma a far ridere non sono i personaggi apparentemente stereotipici di Smetto quando voglio, quanto quella che un fondamentale teorico, Henri Bergson, definirebbe «comicità di situazione». Sono i racconti, le vicende di vita a risultare ineludibilmente divertenti, senza alcun rimorso o volontà di giudizio nei confronti di fascisti che fanno sparare al poligono un dodicenne, o nei confronti di due coppie di mezz’età in vacanza che usano stupefacenti e si tradiscono vicendevolmente.

C’è posto per la tragedia ne I Predatori, ma è una tragedia umana? Una sofferenza dell’animo? No. La tragedia ne I Predatori cela sempre un risolino smorzato che non permette allo spettatore di puntare il dito ai fatti che precedentemente ha visto, ma rivolgere quel dito solo nei suoi confronti.

In una sua intervista Castellitto disse che il suo film parla della «frustrazione». Un film che ha il precipuo compito di far sbattere allo spettatore le gambe in terra perché non può agire per conto dei personaggi che non sono capaci di vivere. Perciò ne ride, come non ha mai fatto nella sua vita.

Salvo Lo Magno per Questione Civile

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