“Les Choses” di Georges Perec
Les Choses di Georges Perec, romanzo pubblicato nel 1965, è un testo che documenta in maniera limpida la rivoluzione socioculturale avvenuta a partire dagli anni ’60 grazie al fenomeno definito a più riprese come “boom economico”. Quest’articolo vuole essere una breve ma quanto più esauriente introduzione all’opera. Saranno offerti, perciò, un paio di percorsi di analisi utili a far emergere alcune fra le maggiori declinazioni tematiche del testo, invitando in contemporanea, però, alla lettura integrale del romanzo.
Il titolo e il sottotitolo del romanzo “Les Choses”
Un primissimo sguardo andrebbe riservato al titolo ed al sottotitolo dell’opera, entrambi pregni di significato e veicoli delle intenzioni autoriali. Les Choses – Le Cose, in italiano – conferma, infatti, sin da subito chi sarà il vero protagonista del testo. Perec – che, non dimentichiamo, è uno dei maggiori esponenti dell’école du regard, movimento letterario pratico di queste operazioni – decide di raccontare la storia secondo la prospettiva degli oggetti, della materia, e non del soggetto e degli individui. A dominare costantemente la scena c’è la merce: gli infiniti prodotti della società consumistica francese. La coppia umana, Jérôme e Sylvie, non sono che un deuteragonista, un unico personaggio sullo sfondo che si limita ad interagire con i propri possedimenti e farsi controllare da essi. Non è un caso, infatti, che all’interno dell’intero romanzo solo in un’unica occasione Perec trascriva un loro dialogo; per il resto dell’opera, i due sono costretti ad un interminabile silenzio.
Il sottotitolo conferma questa prospettiva tematica ancor più incisivamente: Une histoire des années soixante. Perec intende raccontare il mutamento antropologico conseguito al benessere economico della Parigi degli anni Sessanta; vuole dipingere le nuove personalità e le nuove abitudini esplose all’interno di una classe borghese riaffermata prepotentemente sulla scena sociale. Ma è la merce, e non il consumatore, a costituire un autentico dispositivo di potere, e Perec utilizza Les Choses per avvertirci di ciò.
«Nascondere le tracce di produzione»
In una scena chiave de Les Choses, Jérôme e Sylvie sognano una cucina ben allestita. Perec ci avverte però che essi non la userebbero mai; ci sarebbe qualcun altro occupato a cucinare per loro, e soprattutto la coppia non avrebbe nemmeno la cura di andare a comprare personalmente le materie prime.
Ciò è spiegabile attraverso una motivazione molto più complessa rispetto alla semplice accidia dei protagonisti, e risponde piuttosto alle logiche principali della ragione capitalistica. Fredric Jameson, un importante studioso del capitalismo, affermava che la ragione consumistica tenta in ogni modo di «nascondere le tracce di produzione», cosicché il consumatore venga abituato all’immediato consumo del prodotto subito disponibile.
La coppia non deve minimamente pensare all’impegno di cucinare o di trattare le materie prime, per com’è educata ad aspettarsi la merce già fatta e finita; intrattiene con gli oggetti un rapporto che li presenta sempre pronti al consumo, nascondendo la loro reale natura di risultati di una lunga lavorazione. In un’altra sequenza, viene descritto l’orrore della coppia al solo pensiero di visitare una salumeria, dal momento che significherebbe ritrovarsi faccia a faccia con le materie prime, con i prodotti ancora in stato di lavorazione.
O ancora, quando Jérôme e Sylvie decidono di restaurare il loro appartamento si assicurano di essere ben lontani durante i lavori; proprio perché l’oggetto-merce deve apparire solo e solamente pronto all’uso, non deve mai lasciare traccia di una sua elaborazione nel tempo: nasce “già fatto”.
Tre abitazioni, tre spazialità degli oggetti
Nel corso de Les Choses, Perec ci descrive tre appartamenti diversi in cui alloggiano Jérôme e Sylvie. Sembra trattarsi solo del vizio descrittivista tipico dell’école du regard, ma in realtà in queste oculate scenografie si nasconde un’altra importante – se non la più importante – declinazione concettuale del romanzo, ovvero la rappresentazione delle classi sociali sulla base del posizionamento degli oggetti all’interno delle loro dimore.
La prima abitazione apre il romanzo, in una lunga enumeratio nella quale vengono citati i più disparati oggetti all’interno di numerosissime e ampie stanze. Si avverte un’immediata sensazione di armonia totale, di sincronia perfetta tra l’oggetto e lo spazio; tutto sembra essere al suo posto, non c’è né uno spazio vuoto né tantomeno qualcosa di strabordante o disordinato.
Va però detto però che si tratta di un sogno. Jérôme e Sylvie stanno solo fantasticando su questo appartamento da favola, dal momento che la loro realtà esistenziale è ben diversa. Perec inserisce così una seconda descrizione, ovvero il tour all’interno dell’autentica abitazione della coppia. Non si tratta affatto di una catapecchia, anzi, tuttavia Jérôme adrse Sylvie non riescono ad accettare di vivere lì. Il motivo è semplice: l’insufficienza di spazio, l’incapacità della dimora di contenere tutti gli oggetti che possiedono e che sognano di possedere. Se nell’appartamento onirico ogni cosa aveva il suo posto, era posizionata armonicamente nelle varie stanze senza che il loro accumulo risultasse in qualche modo eccessivo, ora gli oggetti sono scomodi, in bilico.
Il trasferimento in campagna
Più avanti nelle vicende, Jérôme e Sylvie scelgono di abbandonare la vita mondana trasferendosi in campagna. La differenza con la dimora di Parigi salta subito all’occhio: Jérôme e Sylvie dispongono di molto più spazio. Forse troppo. Ci sono persino anfratti della casa completamente spogli e inutilizzati, dove la loro precedente abitazione era al contrario sommersa in ogni angolo di vari oggetti. Gli oggetti qui sono “comodi” e l’accumulo è tutto sommato ordinato e non soffocante data l’ampiezza disponibile.
Tre rappresentazioni sociali
Come detto, le tre scenografie veicolano un’icastica rappresentazione delle tre maggiori classi sociali – aristocrazia, borghesia, proletariato – in base al differente posizionamento degli oggetti nello spazio e alle diverse modalità di rapporto con il desiderio.
Nella prima abitazione, utopica e frutto di un sogno, lo spazio e gli oggetti sono congruenti. Tutto è al loro posto senza sbavature di alcun tipo, simbolo di un chimerico e irrealizzabile desiderio finalmente soddisfatto.
Nella seconda, lo spazio insufficiente causa uno straripamento di oggetti nello stesso modo in cui è il desiderio a debordare dai limiti, metafora di insoddisfazione massima, di discrasia totale fra l’appagamento e il godimento.
Nell’ultima casa, infine, il godimento è ugualmente impossibile ma per un motivo opposto, poiché la sfasatura è causata stavolta non dalla ristrettezza bensì dall’eccessiva abbondanza di spazio; sono gli oggetti ad essere in minoranza, è il desiderio a non corrispondere al godimento possibile.
Se la casa onirica appartiene al mondo dell’aristocrazia – in cui ogni desiderio è immediatamente soddisfatto –, la terza può essere considerata come la tipica dimora di una classe meno abbiente, dove la mancanza di vedute e prospettive impedisce lo sviluppo del desiderio che rimane così sopito.
L’appartamento parigino di Jérôme e Sylvie, invece, rappresenta ciò che realmente sono; piccolo-borghesi dall’ambizione straripante e incontrollata, tragicamente circoscritti in un ambiente troppo ristretto per le loro inclinazioni.
Aldo Baratta per Questione Civile