Nella tradizione ebraica, l’imperativo “zakhòr”, cioè “ricorda!” è la condizione della Torah. Il ricordo si compie nella narrazione del passato; l’ebraismo introduce così il concetto di “storia” che diventerà patrimonio universale. Si deve però distinguere tra memoria e ricordo: se la memoria è lasciata alla spontaneità dell’individuo, il ricordo è affidato alla comunità che si costituisce osservandolo. L’imperativo “shamòr”, che tradotto significa “osserva!” è rivolto a chi, pur non avendo vissuto gli eventi, ha la responsabilità di osservarne il ricordo.
Alla luce di tutto questo, oggi 27 gennaio 2020, nel 75° anniversario della Liberazione di Auschwitz, gli archivi di Storia Contemporanea e del Pensiero Filosofico vogliono offrire una loro riflessione in forma congiunta, partendo dalla necessità storica, per passare alla comprensione filosofica di ciò che non andrebbe definito come olocausto, ma come ha suggerito Arendt, Evento “unprecedented”, cioè senza precedenti, riprendendo l’aggettivo usato dal giudice Robert Jackson nel suo discorso d’apertura ai processi di Norimberga. Ecco perché i filosofi preferiscono parlare di Auschwitz, metonimia di quel che è accaduto, nome tedesco che ha sostituito il polacco Oświęcim, luogo geografico situato non nel mito, ma nel cuore dell’Europa.
1933: Adolf Hitler sale al potere in Germania, distruggendo in pochi mesi ciò che restava della Repubblica di Weimar. In poco tempo diventa un dittatore spietato. Nel 1935 vengono emanate tre leggi, chiamate di “Norimberga”. Cosa prevedono?
- la protezione del sangue e dell’onore tedesco;
- la cittadinanza del Reich;
- sulla bandiera del Reich;
La prima vieta i matrimoni e i rapporti extraconiugali tra ebrei e NON ebrei, pena il carcere. La seconda è un ulteriore colpo alla popolazione ebraica: vengono infatti create delle divisioni di classe: i cittadini di sangue tedesco e quelli, come cita la legge, di “razze estranee”. Le leggi di Norimberga rappresentano solo l’inizio della persecuzione nei confronti degli ebrei. Nella notte tra il 9 e il 10 Novembre del 1938 accade uno degli episodi più gravi: le SA (milizie paramilitari) su ordine del ministro della propaganda Joseph Goebbels, attuano quello che viene definito un progrom della Shoah: la notte dei cristalli, ovvero la distruzione di proprietà e luoghi di culto della comunità ebraica. Il bilancio è pesante: 400 morti, migliaia di feriti e un centinaio di arrestati, poi deportati nei campi di concentramento. E qui si arriva al centro del discorso: cosa sono stati i campi di concentramento e di sterminio? Quelli di concentramento una specie di prigione all’aperto, dove i prigionieri sono costretti ad effettuare lavori forzati molto pesanti. Un esempio è Dachau. I campi di sterminio hanno come unico scopo quello di uccidere i prigionieri. Questo tipo di campo è stato attivato nel 1942, dopo la conferenza di Wannsee, dove viene decisa la cosiddetta “soluzione finale della questione ebraica”. Il campo tristemente più famoso è quello di Auschwitz. È il più grande d’Europa ed è diviso a sua volta in tre campi: Auschwitz I, Birkenau (Auschwitz II) e Monowitz (Auschwitz III). Si stima che sono nel campo di Auschwitz siano morte milioni di persone. In questo campo sono stati deportati personaggi come Primo Levi (sopravvissuto, suicidatosi nel 1987), Liliana Segre (quasi novantenne, è stata nominata dal Presidente Mattarella senatrice a vita) ecc… . Il fenomeno che indica lo sterminio degli ebrei viene chiamato “Olocausto” (o Shoah). Il genocidio ebraico avviene nel più totale silenzio e nella totale indifferenza delle Nazioni nemiche della Germania nazista. Il 27 Gennaio 1945, qualche mese prima della fine del conflitto, i pochi sopravvissuti del campo di Auschwitz vengono liberati dall’Armata Rossa sovietica.
La realtà storica dell’evento, seppur riportata brevemente, ma nei suoi punti salienti, ci comunica la necessità di un impegno, di un impegno ontologico. Un impegno di natura umana, che è comunicato a tutte le persone di ogni lingua, popolo e Nazione, perché guardando al passato impariamo a vivere un presente di pace che distrugge l’odio e prepara un futuro di prosperità volendo negare con tutto noi stessi una eventuale necessità nefanda di ripetere quell’errore.
L’uomo è dunque chiamato alla memoria, una memoria che non appartiene solamente alla data fissa del 27 gennaio, che non appartiene alla semplice cerimonia in cui riempirsi la bocca di grandi parole, per poi cadere nell’oblio della quotidianità, che forse fa di noi persone che odiano. Allora è necessario che risuonino forte le parole della senatrice Liliana Segre quando dice:
«Coltivare la memoria è ancora un vaccino prezioso contro l’indifferenza».
Così, anche Primo Levi ci richiama al dovere di non indifferenza, che ci impegna a ricordare sempre, nel continuo rammemorare della storia e di quella Storia, perché diventi una preziosa arma per una società giusta. Emblematiche sono quelle parole così severe che egli usa per ammonirci in tal senso. Scriverà, dunque, nel primo capitolo de “I sommersi e i salvati”, intitolato proprio “La memoria dell’offesa”:
«Chi è stato torturato rimane torturato. […] Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura non si riacquista più».
Alla luce di queste parole, comprendiamo quanto sia necessario conoscere e dunque ricordare, fare memoria. Levi stesso ammonisce dicendo:
«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».
A fronte di ciò, i poeti come Levi, ad esempio, già tentavano di articolare nei loro versi il silenzio dei sommersi, gli storici andavano raccogliendo documenti e prove dello sterminio, i giuristi, pur di fronte a crimini che sembravano eccedere ogni punibilità, avevano dovuto procedere emettendo giudizi e condanne. I filosofi, invece, hanno taciuto a lungo, impotenti e afasici al cospetto di quel che era accaduto.
Questa afasia, che ancora si protrae, e attesta una ferita aperta nella filosofia occidentale, non è dovuta solo a rimozione, inconscia o intenzionale, ma al fatto che per il pensiero filosofico occidentale, e in specie quello ebraico, Auschwitz rappresenta una sfida.
L’abisso spalancato dalla Shoah sembra incolmabile, rammenta Levinas. Alla difficoltà dell’immaginazione, paralizzata di fronte all’enormità del mostruoso, si aggiunge quella del pensiero che fatica a compiere il passaggio dalla dimensione narrativa del ricordo a quella filosofica della concettualizzazione. Che cosa vuol dire comprendere l’incomprensibile? E in che modo la ragione, chiamata direttamente in causa dal tribunale della storia sarebbe in grado di rispondere?
Il paradosso di una riflessione sull’estraneità assoluta del male radicale investe la filosofia che intuisce, d’altra parte, di doversi mettere in discussione. Ecco perché la Shoah è rimasta a lungo fuori dal discorso filosofico.
Il silenzio, che nell’immediato dopoguerra Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno aveva prescritto ai poeti, è valso alla fin fine anche per i filosofi. A chi pretendeva di spiegare tutto storicamente, indicando cause e nessi, per ritrovare la luce in quell’oscurità e far di nuovo trionfare i Lumi, si è opposto chi in Auschwitz ha scorto un enigma insondabile, indicibile, incomprensibile.
Auschwitz, dunque, rappresenta una sfida per la filosofia, perché la spinge a rivedere concetti secolari, quello di morte e quello di libertà, quello di legge morale e quello di ragione. È una sfida anche perché indica al pensiero occidentale concetti impensati, rimasti fuori dall’inventario filosofico: da quello di dignità a quello di vergogna. Ma Auschwitz è una sfida soprattutto perché, movendo dall’essere umano, disumanizzato e non più umano, costringe la filosofia a ripensare radicalmente la condizione umana, l’umanità dell’uomo. La costringe a chiedersi: “se questo è un uomo”, come ci ha insegnato Levi.
Esemplare, a questo punto, è il riferimento alle officine di Hitler e alla sottrazione della morte. La Scuola di Francoforte e in particolar modo Hannah Arendt nella loro riflessione su questo tema hanno avuto un ruolo decisivo. Fra i primi a intuire quel che era avvenuto nelle fabbriche della morte, Arendt cercò di comprendere razionalmente il massacro industrializzato. E con il tempo le fu chiaro che il fine ultimo a cui il totalitarismo mirava nei campi era la trasformazione della natura umana. Ma, sebbene la Shoah sia stata quasi il filo rosso della sua riflessione, fu proprio il suo concetto di totalitarismo, con cui si suggeriva un paragone discutibile tra nazismo e stalinismo, a farle vedere nei “Vernichtungslager”, cioè nei campi di annientamento, una variante aggravata del sistema concentrazionario.
Qual è, allora, la differenza tra il campo di lavoro e il campo di sterminio, ancora oggi spesso confusi? La differenza non è di grado, ma di qualità. Il campo di lavoro e il campo di sterminio sono entrambi universi di morte; ma la morte ha un ruolo del tutto diverso.
Il sistema dei campi di lavoro, che ha precursori (Gulag sovietici) ed epigoni, si compendia nello sfruttamento schiavistico del lavoro in vista di obiettivi precisi. Per comprenderci, i deportati in Unione Sovietica furono impiegati per disboscare intere regioni, costruire ferrovie e linee elettriche, edificare aree urbane. Il cardine del campo era il lavoro, appunto; la morte era un accidente previsto, ma non programmato.
Questo spiega perché il tasso di mortalità nei gulag non supererò mai il 20%, mentre nei campi di sterminio, e cioè, oltre ad Auschwitz, che era insieme campo di lavoro e di sterminio, a Chełmno, Bełżec, Majdanek, Sobibór, Treblinka, il tasso di mortalità superò il 99%. Nei campi di sterminio la morte era al contempo il cardine e la finalità immediata. Quanti più cadaveri producevano le officine hitleriane, tanto più era elogiata la resa. Infatti, ha osservato Hanna Arendt:
«Era come se i nazisti fossero convinti che era più importante far funzionare le fabbriche dello sterminio che vincere la guerra».
I testimoni che hanno riflettuto sulla morte che incombeva sulla vita nei lager ci hanno detto come per le non-persone non solo la vita non era più vita, ma la morte non era più morte. Scriverà Primo Levi in merito:
«Si esita a chiamare morte la loro morte».
Di qui, potremo scorgere un insegnamento filosofico sulla concezione estetica della morte che ci viene da Jean Améry. Nei lager ci si occupava non della morte, ma del morire. Il morire era onnipresente, la morte si sottraeva. La realtà imminente e spietata del lager trionfava anche sulla morte e sulle questioni ultime. Tutto questo porterà Améry stesso a rivolgere un atto d’accusa contro il pensiero heideggeriano dell’Essere-per-la-morte (Zein-zum-Tode), riportato nella celebre opera Zein und Zeit (Essere e Tempo) del grande filosofo tedesco. Dunque, quando si è liberi si può pensare alla morte senza necessariamente essere angosciati dal morire. Nei lager era impossibile. Le non-persone esistevano quotidianamente per la morte e solo per essa. L’annientamento ha significato soprattutto in questo: che persino la morte è stata preclusa alle non-persone.
L’orrore che Auschwitz ha introdotto nella storia del mondo non sta, tuttavia, solo nell’annientamento, né solo nel numero delle vittime, ma nell’offesa arrecata alla dignità della morte, ci dice Giorgio Agamben. L’idea che il cadavere meriti rispetto, e dunque l’idea della sepoltura, fa parte del patrimonio etico dell’umanità. Sia nella vita, che diventa non-vita, sia nella morte, che non è più morte, il crimine commesso ad Auschwitz è stato quello di infrangere il legame dell’uomo con la sacralità della vita e della morte.
Di qui, giungiamo alla parte finale di questo contributo che guarda verso l’imprescrittibile questione del perdono, sotto l’ombra di Auschwitz.
All’indomani delle Shoah emerge, già a partire dal processo di Norimberga, nel 1945, l’incommensurabilità dei crimini perpetrati che sembrano andare oltre ogni giustizia umana. È in tale contesto che si pone la questione, ancora aperta, del perdono.
Se sussiste in gran parte accordo sulla necessità che i reati siano dichiarati imprescrittibili, il disaccordo riguarda il perdono, per alcuni da prescrivere, per altri no. Il che non sorprende, perché la questione ha in sé aspetti non solo filosofici e politici, ma anche teologici.
All’esigenza fatta tacitamente valere ovunque in Europa, e non da ultimo in Germania, rispose, per la parte ebraica, Vladimir Jankélévitch dicendo:
«È tempo di perdonare e di dimenticare».
Dimenticare perché, come egli stesso scriverà, aggiungendo a quanto già riportato:
«Il perdono è morto nei campi»,
perché mai nessuno ha chiesto perdono.
Da questa posizione, in un certo senso controversa, nasce la riflessione di filosofi e teologi cristiani che hanno, quindi, rimproverato agli ebrei, talvolta fra le righe, talvolta più esplicitamente, di non sapere e non volere perdonare. Qui si fa emblematica la posizione della teologa Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz (una studiosa di Edith Stein, cioè Santa Teresa Benedetta della Croce, filosofa tedesca e monaca carmelitana, uccisa ad Auschwitz il 9 agosto 1942) che ha criticato con veemenza Jankélévitch accusandolo del fatto che nella sua visione resterebbe, allora, solo il risentimento; mentre è necessario guardare all’esempio della chiesa cattolica che ha saputo dare l’assoluzione al comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, perché il Mistero della Fede è questo, scrive la teologa:
«Nell’assoluto c’è anche l’assoluzione».
D’altro canto, invece, Emmanuel Levinas affronterà il tema del perdono senza mai prescindere dalla Shoah. Affermerà, cioè, una dimensione legata al grande tema della colpa e del colpevole, di colui che deve chiedere perdono e di colui che deve perdonare. Per comprenderci, nel rito di Kippùr le colpe perdonate sono anzitutto quelle commesse verso Dio. Più complessa appare la riconciliazione con l’altro. Dice la Mishnà:
«Le colpe dell’uomo verso Dio sono perdonate nel giorno di Kippùr, se prima non abbia placato l’altro» (Yomà 9).
L’ebraismo, dunque, pensa il perdono, ma non lo semplifica. Il perdono può essere concesso solo dalla parte lesa. Dio può perdonare le offese fatte a Dio, ma non può perdonare le offese fatte all’uomo. E non c’è un perdono per procura. L’offesa al l’individuo non è cancellabile in nome di un assoluto che assolve. Nessuno può essere costretto al perdono. E nessuno, neppure Dio, può perdonare al posto, insostituibile, della vittima.
«Forse Dio altro non è»,
ha scritto Levinas,
«che questo permanente rifiuto di una storia che si mette a sesto sulle nostre lacrime private».
La ferita inferta all’altro incrina l’equilibrio del mondo. Chi lo ha creato, e ne porta il peso, non può sopportare che il crimine venga cancellato. Dio non può farsi carico del peccato commesso dall’uomo, non può annullarne la responsabilità. Non per impotenza, ma per giustizia. Il mondo in cui domina l’onnipotenza assolutaria del perdono è un mondo consegnato alla reiterazione del crimine.
Analoga è la posizione di Jacques Derrida che denuncia l’equivoco di un perdono confuso con l’oblio e il lavoro del lutto, indicando la necessità di pensare un perdono che, senza dimenticare, mentre vieta ogni assoluzione, non perdona che l’imperdonabile.
Posta la questione di un perdono senza assoluzione, sebbene in forme diverse, da Levinas a Derrida, pensare dopo Auschwitz vuol dire uscire da una sintassi autistica per avviarsi non verso una libertà astratta, ma verso una liberazione che, come nel movimento dell’esodo, si compie di volta in volta con l’altro e nell’altro.
Cosa resta oggi di Auschwitz? Cioè, cosa resta di quell’immagine dell’inferno? Ne resta la Storia. Non un processo irreversibile, ma una lotta aperta dall’esito incerto, poiché c’è la storia dei vincitori che incombe, e se essi continueranno a vincere,
«anche i morti non saranno al sicuro»
dice Walter Benjamin.
Auschwitz non è un capitolo chiuso e concluso della storia. Per dirla con Anders:
«Il mostruoso non è stato un puro interregno».
E una volta entrato nella storia, potrebbe ripetersi.
Il che spinge paradossalmente a leggere i fenomeni dell’attualità alla luce di Auschwitz. Perciò nella Shoah, che non appartiene a un passato remoto, ma segna il presente e incombe sul futuro, devono essere scrutate le possibilità occulte e inquietanti che la modernità potrebbe ancora riservare. Tutto questo dice e insegna che è importante il ricordo.
Domenico Troiano e Margherita Rugieri per Questione Civile – XXI