Purgatorio: la stesura e l’importanza delle imagines agentes per l’invenzione
Dove eravamo rimasti…
Dopo aver esplorato assieme l’Inferno e le imagines agentes che potrebbero aver aiutato il Sommo poeta nella figurazione di un regno ultraterreno infestato di peccatori e demoni, è giunta l’ora di concentrarci su quella che Tolkien definirebbe “terra di mezzo”, ovvero il Purgatorio.
Purgatorio: ma quale?
Prima di iniziare l’analisi sulle fonti iconografiche che stimolarono la fantasia dantesca, è bene chiarire – data la complessità del tema – di quale purgatorio si parla.
Secondo uno dei più grandi studiosi del Medioevo, Jacque Le Goff, il purgatorio venne codificato attorno al 1170/80 dalla nascente scolastica francese.[1]
L’idea di un “luogo di mezzo” ove dovevano essere collocati i peccatori che, per differenti colpe non potevano accedere direttamente al paradiso, ma non erano collocabili neanche fra i dannati dell’inferno – per cui non esisteva una possibilità di espiazione – era già nella mente degli antichi Padri.
I mediocres, ovverosia i peccatori intermedi, nelle fonti letterarie ed iconografiche venivano rappresentati sempre in maniera molto “evanescente”; in altre parole non si sapeva dove collocarli.
Ad esempio, nella Prima lettera di San Paolo ai Corinzi (3, 11-15) si legge:
«Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco».
Si noterà come, in sostanza, non essendo stata codificata una geografia del purgatorio, né tantomeno le pene da infliggere ai mediocres affinché possano espiare i loro peccati; gli unici supplizi erano il fuoco e la lontananza da Dio.
Il Concilio di Lione: la Chiesa sancisce l’esistenza del Purgatorio
Solo nella seconda metà del XIII secolo, ed in particolare durante il Concilio di Lione (1274), la Chiesa codificò sia l’esistenza di tale luogo ultraterreno sia le pene; e ciò anche e soprattutto grazie a Dante.
Esemplificativa è, a tal proposito, una pittura realizzata all’indomani di tale codificazione. L’artista, proprio per paura di non essere capito, ha sentito il bisogno di inserire una iscrizione: «Hoc est purgatorium», per rendere esplicita l’immagine.
All’inizio del XIV sec la Commedia sancirà definitivamente il trionfo del regno intermedio, cui verrà fornita una struttura interna di rilievo, fondata sul settenario dei peccati, e una rilevanza pari a quella attribuita agli altri due regni contrapposti.
La seconda cantica costituisce
«la conclusione sublime alla lenta genesi del purgatorio, di quel percorso variegato e disomogeneo di cui la costruzione dantesca recupera i temi sparsi determinandone, nel contempo, il sostanziale superamento con la creazione di un sistema totalmente inedito e innovativo».[2]
Purgatorio e iconografia: l’importanza della rinascenza federiciana
Tra Duecento e Trecento l’arte figurativa occidentale vive un cambiamento epocale generato da una rinnovata attrazione per la rappresentazione della realtà fisica. L’irreversibile superamento di antiche modalità rappresentative, in favore di una vivacità e naturalezza migliori, si realizza a cavallo fra XIII-XIV secolo.
Tutto ciò grazie alla rinascenza federiciana, ed in particolare a Nicola e Giovanni Pisano, ma anche grazie ad una nuova modalità di intendere la spiritualità dovuto ad un più profondo mutamento della società medioevale. Tale cambiamento, a cui l’arte si adeguò prontamente, inaugurò sul piano figurativo un nuovo vocabolario formale ed espressivo.
Se, come affermava Tommaso d’Aquino «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu»[3], la realtà poteva – e doveva – essere di nuovo raccontata e descritta come il luogo ove la verità poteva essere rivelata e conosciuta.
E Dante, da intellettuale qual era, non rimase insensibile a tutto ciò.
In Purgatorio, canto X:
vv.10-12
«Qui si conviene usare un poco d’arte”,
cominciò “ ’l duca mio, in accostarsi
or quinci, or quindi al lato che si parte”»;
vv.28-33
«Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
quand’io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo candido e addorno
d’intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno».
Purgatorio e iconografia: l’importanza della bottega dei Pisano
Il poeta rimane colpito dal candore del marmo e si accorge di trovarsi dinanzi ad un ciclo di bassorilievi scolpiti, la cui bellezza supera non solo la perfezione dell’arte classica, ma persino quella della natura stessa. Di arte divina si tratta, Dio stesso è l’artefice di quello splendore.
Se è vero che, da un lato, «nei canti X-XII del Purgatorio non vi è l’ekphrasis di un’opera figurativa umana, delle sculture di Giovanni Pisano, delle pitture di Giotto, bensì la prova più alta della divina mimesi, la traduzione poetica di un’opera prodotta da Dio»[4], è per altro verso innegabile che sin dalle prime terzine del X canto il dialogo con le arti si fa pressante e i punti di riferimento chiari e definiti. Di questo dialogo si possono individuare le fonti, coglierne il senso che non è solamente compiacimento estetico, che non si esaurisce nel fattore decorativo e neppure nell’elemento narrativo. Quell’opera sublime intagliata nel marmo va intesa come parte integrante del processo di purificazione, assieme alla preghiere, ai pentimenti e alla pena espiatoria cui sono sottoposti.
La mimesi secondo Dante
Nei vv.28-33, citati poc’anzi, Dante parla di arte. Viene menzionato Policleto, grande scultore dell’antichità. Si allude così all’arte intesa come mimesi del naturale, secondo l’estetica aristotelica, ma se ne indica anche l’immediato superamento, poiché la natura stessa non può plasmarsi meglio del suo Creatore.[5]
Sempre di miemesi si tratta, tuttavia rispetto alla classicità, qui i rilievi hanno un alto e più divin significato. Essi sono espressione diretta e non mediata di Dio che coinvolge, come osserva Michelangelo Picone:
«non solo vista e tatto (come avviene per le sculture umane), ma anche l’udito (necessario per apprezzare la musica o la recitazione drammatica) e perfino l’olfatto (chiamato in causa al v.62). ed è anche un’arte connotata da un grande dinamismo: le figure non sono immobili, ma sembrano essere in continuo movimento comunicano ed interagiscono fra loro».[6]
Purgatorio, X 55-66:
«Era intagliato lì nel marmo stesso
lo carro e ’ buoi, traendo l’arca santa,
per che si teme officio non commesso.
Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, a’ due mie’ sensi
faceva dir l’un ’No’, l’altro ’Sì, canta’.
Similemente al fummo de li ’ncensi
che v’era imaginato, li occhi e ’l naso
e al sì e al no discordi fensi.
Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, l’umile salmista,
e più e men che re era in quel caso».
Ipotesi di suggestioni visive per la stesura della seconda cantica
Quale potrebbe essere l’opera che ispirò Dante a creare una percezione così vivida, sensoriale come dice Picone, del suo corteo?
Le opere che meglio si legano a tale evocazione sensoriale delle immagini dantesche, sono sia quelle classiche, sia quelle prodotte dalla bottega dei Pisano e da Arnolfo di Cambio. Basti citare, a titolo d’esempio, lo splendido Monumento funebre Annibaldi di Arnolfo.
Il realismo dei versi di Dante trova esplicita corrispondenza nell’affollato rilievo tardo-antico: si percepiscono i movimenti, le grida, il frastuono.
A quel verismo del rilievo storico si collega la scultura del Duecento, che della precedente recuperava la plasticità, sommata alla tensione mistica dei gesti e all’intenzione didascalica, finalizzata al raccoglimento interiore.
Più dell’arte romana, ad influire sulle sinestesie dantesche sarà la scultura duecentesca delle botteghe di Nicola Pisano e Arnolfo di Cambio.
Ciò si può verificare anche nei vv. 34-45 (Pg. X):
«L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’anni lagrimata pace,
ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria ch’el dicesse ’Ave!’;
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
’Ecce ancilla Deï’, propriamente
come figura in cera si suggella».
L’Annunciazione di Nicola Pisano
Nell’Annunciazione scolpita da Nicola Pisano per il pulpito del battistero di Pisa fra il 1257-60 si noterà come vi sia una nuova fisicità, una nuova pregnanza di corpi, una vivacità e veridicità di panneggi e gestualità.
Nel pulpito di Nicola Pisano il rilievo è più accentuato, distanziandosi dal fondo, e animandosi di un movimento nuovo, sinora inusitato.
Nell’Annunciazione probabilmente proveniente da S. Maria del Fiore ed ora al Victoria and Albert Museum di Londra, l’angelo è colto nel momento in cui, appena sceso dal Cielo, muove verso Maria: la sua presenza fisica si impone nello spazio, il suo corpo, nell’equilibrio studiato dei gesti, si muove agile e si volge deciso ma composto verso la Vergine intimorita, che appena, delicatamente, si ritrae.
Greta Cingolani per Questione Civile
Bibliografia
J. LE GOFF, La nascita del purgatorio, 1988, pp. 12-18
Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae, De veritate, q.2 a.3 a.19
M. Picone, Il cimento delle arti nella Commedia. Dante nel girone dei superbi, 2006, p.83.
[1] J. LE GOFF, La nascita del purgatorio, 1988, pp. 12-18.
[2] Ivi, p.37.
[3] Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae, De veritate, q.2 a.3 a.19
[4] PICONE, 2006, p.86.
[5] Esempi letterari: le pitture che evocavano la guerra di Troia nel tempio di Giunone a Cartagine Aen. I, 441-93; le storie di Roma antiche incise sullo scudo di Enea Aen. VIII, 626-731; le immagini degli avi scolpite nei bronzi degli argivi Teb. VI, 400-30.
[6] M. Picone, Il cimento delle arti nella Commedia. Dante nel girone dei superbi, 2006, p.83.