Paradiso: ruolo delle imagines agentes nella cantica

Rappresentare l’invisibile per mezzo del visibile: il Paradiso

Dove eravamo rimasti…

Siamo giunti alla fine di questo viaggio ultraterreno. Dopo aver immaginato le possibili fonti per l’Inferno e il Purgatorio, partiremo ora per Ravenna, unica fonte possibile per la stesura del Paradiso. Perché? Scopriamolo insieme!

“700 anni con Dante”
-N. 11
Questo è l’undicesimo numero della Rubrica di Rivista dal titolo 700 anni con Dante, finalizzata ad analizzare la figura del Sommo Poeta da diversi punti di osservazione. La Rubrica vede la collaborazione tra le Aree di Storia Antica e Medievale, Economia, Affari Esteri, Lettere, Scienze Umane, Storia Moderna e Contemporanea, Arte, Cinema, Tecnologia, Filosofia del Diritto, e Filosofia Teoretica

Paradiso: come rappresentarlo?

Figurare il paradiso, dare forma plausibile a un’idea, a un dogma, a una preghiera. Rappresentare i beati nell’empireo evitando che l’eccessiva concretezza vada a scapito dell’espressività. Non con una pittura che restituisca le sfaccettature e i chiaroscuri della consistenza dei corpi, non con una scultura di cui si possa perfino percepire il peso; bensì con la levità, la brillantezza ed il colore. E poi le geometrie, le simmetrie a significare la precisione la sincronia dei meccanismi celesti manovrati dall’Amore di Dio che muove ogni cosa.

Togliere la consistenza alle immagini, mantenendone ed amplificandone il peso simbolico e allusivo: tale espediente era già noto all’arte paleocristiana, ricco crogiolo di allegorie figurate.

Erano proprio queste le peculiarità diffuse nei progetti decorativi della Tarda Antichità fra Roma e Ravenna, specie là dove l’influsso della cultura bizantina si faceva più intenso, soverchiando il ricordo – ormai sbiadito – della naturalezza classico-ellenistica, ed imponendo invece le sue astrazioni, le proporzioni simboliche, le semplificazioni formali e le sue assolute immobilità.

Il veicolo di queste astrazioni luminosissime non poteva che essere il mosaico, il quale grazie alle rifrangenze e ai giochi di luce creava levità e inconsistenza corporea. 

Ma come raffigurare “l’invisibile per mezzo del visible”?

Ravenna: l’unica possible fonte

Prima di indagare le possibili fonti iconografiche – secondo chi scrive tutte ravvisabili a Ravenna – bisogna tenere a mente che i canti composti effettivamente a Ravenna sono gli ultimi tredici.

Paradiso, XXII, vv.22-30:

«Come a lei piacque, li occhi ritornai,
e vidi cento sperule che ’nsieme
più s’abbellivan con mutüi rai.

Io stava come quei che ’n sé repreme
la punta del disio, e non s’attenta
di domandar, sì del troppo si teme;

e la maggiore e la più luculenta
di quelle margherite innanzi fessi,
per far di sé la mia voglia contenta».

Siamo nel Settimo cielo, quello di Saturno, fra le anime contemplanti. Il poeta descrive cento sfere che diventavano più belle scambiandosi a vicenda i raggi, ovvero irradiando reciprocamente, l’una sull’altra, la propria luce.

Leggendo questi versi ciò che viene in mente, e non potrebbe essere altrimenti, è il mausoleo di Galla Placidia, e i suoi splendidi cicli musivi che per fattura e decorazione ricordano motivi diffusi nel tessile orientale.

Paradiso
Mosaico della volta, V secolo, Ravenna, mausoleo di Galla Placidia

Il tappeto musivo in questione ricopre la volta a botte del corridoio d’ingresso e del braccio opposto. Il mosaico mostra, su un fondale di color azzurro intenso, decorazioni circolari raggiate campite da fiori stilizzati e disposte su file sfalsate, alternate ad angolo retto e in diagonale, confondendone i raggi. 

Tali decori, assimilabili nella conformazione ai cristalli di neve ghiacciata che si stagliano sul blu del cielo, poterono forse ispirare anche l’immagine della volta celeste che si adorna di un “fioccar di vapore trionfanti”. Le anime festanti, infatti, seguendo le luci di Cristo e Maria, risalgono come fiocchi di neve dal cielo delle stelle fisse all’Empireo nel canto XXVII del Paradiso (vv.70-72).[1]

Paradiso: raffigurare l’invisibile per mezzo del visibile nei mosaici ravennati

Descrivere l’indescrivibile, rappresentare la visione di Dio, concetto supremo, infinitamente grande, incommensurabile. Nessun paragone con quanto esiste di reale nella natura o nell’arte poteva servire ad esprimere il concetto supremo. 

Nel XXVIII canto, ai vv. 13-39, Dio appare come punto luminosissimo, così abbagliante che l’occhio colpito dalla Sua luce violenta “chiuder conviensi per lo forte acume” (v.18):

«E com’ io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s’adocchi,

un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;

e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.

Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che ’l dipigne
quando ’l vapor che ’l porta più è spesso,

distante intorno al punto un cerchio d’igne
si girava sì ratto, ch’avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne;

e questo era d’un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e ’l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.

Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che ’l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.

Così l’ottavo e ’l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch’era
in numero distante più da l’uno;

e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s’invera».

Chrismon e Χριστός: una minimal art ante litteram

Un punto potentissimo ma anche infinitamente piccolo, tanto piccolo che qualunque stella vista dalla terra parrebbe grande come la luna, se confrontata con quello: indivisibile, immobile e contornato da nove cerchi ignei ruotanti attorno ad esso, velocissimo il primo e più lenti gli altri man mano che si allontanano dal centro.

Si tratta di un’immagine puramente geometrica, semplice, essenziale e proprio per questo infinitamente simbolica, poiché prevede la rielaborazione totale dei segni che la compongono.  

L’arte paleocristiana aveva in effetti elaborato un segno dalla fortissima valenza evocativa che potrebbe raffrontarsi con questa visione estremamente rarefatta, espressa da Dante nei versi indicati. 

Il chrismon, monogramma di Cristo, formato dalla combinazione e dall’incrocio delle prime due lettere greche del nome Χριστός, la chi (X) e la rho (P), o dall’unione delle iniziali iota (I) e chi (X).

Un simbolo carico di sensi e tuttavia conciso, molto diffuso nella scultura paleocristiana. rovò massima diffusione attraverso il mosaico dove i monogrammi raggiati, circondati da cerchi di luce colorata, si arricchirono del bagliore cangiante dell’oro e si accesero per la profusione delle pietre preziose che ne tempestavano i bordi. Punti in cui davvero “raggiava lume”, concettualmente espandibili all’infinito, che Dante poté vedere certamente in molti luoghi, in mosaici semmai oggi perduti, ma che di certo erano frequenti sulle pareti e sulle volte dei cicli musivi della Ravenna tardoantica.

Il chrismon si ritrova al centro della volta a crociera e nei sottarchi della cappella arcivescovile, a San Vitale e nel mausoleo di Galla Placidia.

Paradiso
Monogramma, V sec, Ravenna, Galla Placidia

Il “prato fiorito”, un’ulteriore iconografia

Oltre ai monogrammi raggiati, un altro motivo diffuso nel repertorio musivo tardoantico e medioevale, specie laddove gli apporti della cultura bizantina appaiono più significativi, è quello del cosiddetto “prato fiorito”. Si tratta di un giardino stilizzato, una sorta di terreno simbolico assolutamente immateriale, benché cosparso di fiori, e naturalmente allusivo al contesto paradisiaco nel quale si manifestano le figure sante che vi incedono. A Roma lo troviamo ai piedi dei SS. Primo e Feliciano e della grande croce gemmata nel mosaico “bizantino” di Santo Stefano Rotondo (VII d.C.).

Sotto papa Pasquale I, rispetto a questa iconografia, si trovano esempi di IX secolo nei magnifici e opulenti catini absidali ove le figure si «assottigliano, astratte fino ad assomigliare all’arcaica essenzialità delle statue elleniche preclassiche».[2] Su quel piancito ordinatamente cosparso di fiori poggia il trono di Maria e si inginocchia lo stesso pontefice Pasquale I nel mosaico absidale di Santa Maria in Domnica.

Paradiso
Mosaico del catino absidale, IX dC, Santa Maria in Domnica, Roma

Mentre sul prato ricoperto di gigli e papaveri si muovono, fra palmizi ancora abbastanza credibili, i santi che accolgono Cristo e il papa offerente nel mosaico del catino absidale di S. Cecilia in Trastevere.

Mosaico del catino absidale, Santa Cecilia in Trastevere, IX dC

Non dissimile è il “prato fiorito” di tanti mosaici ravennati di VI sec: nel Battistero degli Ariani su quel giardino lussureggiante, benché semplificato, terreno stilizzato immediatamente evocativo di un’ambientazione paradisiaca, poggiano gli apostoli.

Mosaico con Battesimo del Cristo, VI dC, battistero degli ariani, Ravenna

Ma anche nella cupola con al centro il trono gemmato dell’Etimasia verso cui incedono, solo sfiorandolo, sante, santi, magi nei mosaici della navata centrale di Sant’Apollinare Nuovo.

Processione di sante, navata centrale di Sant’Apollinare nuovo, VI dC, Ravenna

Greta Cingolani per Questione Civile


[1] Per il verso in questione, che trova un riscontro preciso in Vita nova XXXIII, 25 cfr. il capitolo Fra Dante e Guido: la neve e i suoi segreti, in Pasquini (2001, pp.66-8).

[2] ANDALORO, ROMANO, 2000, p.10.

Bibliografia

Fra Dante e Guido: la neve e i suoi segreti, in Pasquini, 2001

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