Poesia: incontro con le nuove generazioni

Poesia

Poesia: come la letteratura viene esplorata dalle nuove generazioni

La Redazione di Questione Civile ha il piacere di intervistare Federico Di Mascio, giovane scrittore e poeta abruzzese, scrittore di una raccolta di poesie dal titolo “Il ragazzo d’estate” e di un libro di narrativa dal titolo “Cosmologia d’estate”.

Di seguito, l’intervista completa.

Cos’è per lei la scrittura e che valore ha nella sua vita?

«L’espressione più intima della mia anima, enunciato nel modo più chiaro ed esaustivo possibile.

L’arte, nella totalità abbracciante le possibili forme creative, è il linguaggio più profondo.

La scrittura, per me, è l’arte dell’anima.

E, secondo la mia personale esperienza, rappresenterebbe il viatico, mediante il quale, condividere le proprie emozioni, ma non solo: aiutare altre anime.

Alla soglia dei trent’anni, mi sono reso conto, di non scrivere solo per me stesso – per sublimare il mio spirito – ma, anche, per donare emozioni e speranze a coloro che soffrono molto: gli indifesi.

Per questo vorrei subito mettere le mani avanti, e dire: ciò che produce, non sono il mio cervello. O il mio intelletto. Che certo, sono importanti, ma, ciò che lo fa davvero, è la mia sofferenza. Quest’ultima: la madre di tutta la mia arte. Amo definire, la sofferenza, nel mio primo libro, come un Eversore. Lacerante in due l’animo.

Io sono, pertanto, un eversore… ma, la mia sensibilità, mi impedisce di esserlo. Fino in fondo. Non so se si capisce il senso. Perché, se non fossi sensibile, sarei cosa? Un creatore nichilista.

Giacché so di esserlo, la sofferenza, richiama il mio estro artistico.

Quindi sono un artista perché, se non ci fosse quella sensibilità, sarei un eversore…

E, paradossalmente, anche se nessuno lo sa: anche essendo artisti – si può essere nichilisti. Uno dei motivi per i quali opero come letterato: chiarificare questo malinteso, per porre distinzione fra un’arte “consapevole” ed una “inconsapevole”.

Meglio dire: un’arte che sa di essere tale rispetto ad una nichilistica. Inconsapevole.

E che pertanto, agisce nella pura follia.»

Il suo primo scritto è una raccolta di poesie dal titolo “Il Ragazzo d’Estate”: chi è il ‘ragazzo d’estate’ e cosa vuole trasmettere in questo mondo così caotico, complesso e sfuggente?

«Il ragazzo d’estate è colui che prova emozioni non contraddittorie, le quali, non scalfiscono in modo negativo il proprio animo. Meglio dire: prova emozioni che sono eterne.

Tutte le trepidazioni provate dal ragazzo, al contempo, sono anche iridescenti.

Il ragazzino vive una dimensione trascendente la realtà. All’interno della quale, tutte le attività vissute, sono distaccate dal senso concreto, superficiale e reale dell’esistenza.

Il ragazzo genera un’immagine emotiva distaccantesi dalle proprie attività. Che altresì per un uomo adulto sono caotiche, complesse e sfuggenti. Perciò, per tal motivo, utilizzo l’espressione iridescente.

Perché, anche se il ragazzo prova emozioni forbite, è attivo. In costante movimento.

Infatti, rasenterebbe l’impossibile: pensare un mondo dove, il tempo, non scorresse. E dove, l’individuo, fosse bloccato… Come se, tutto intorno, fosse ghiacciato. Congelato.

Spero si capisca ciò che voglio intendere. Certo. Può sembrare all’apparenza complesso. Invece: tutto ha senso.

Il ragazzo d’estate, è eterno. Senza tempo. È come se fosse un Nume.

Il ragazzo d’estate è in ognuno di noi. Perché, ognuno di noi, fu ragazzino. E, ciascuno di noi, sperimentò la gioia dell’infanzia: questo vorrebbe trasmettere la poesia sul ragazzo d’estate.

Ricordare, ad ognuno, una cosa importante: quell’iride non si perde con l’arrivo dell’età adulta. Dentro di noi vivrà sempre quel fuoco dell’eterna giovinezza.

Il bimbo è sempre un bimbo indaco, ben appunto, per questo motivo. E, per me, il ragazzo d’estate, è – emotivamente – immutabile. Le sue emozioni lo sono… in una dimensione solida-salvante, la quale io definisco l’estate.

Quell’emozione eterna che, non essendo una stagione, è un’emozione. Indistruttibile. Tale che, quelle esperienze (quel contatto con la natura, con la montagna, con il mare, e cosí via per esempio), siano più… che un effimero “contatto”; sia qualcosa in più. Qualcosa che porti la mente astratta del fanciullo a sublimare il senso della realtà, per esempio… o a guardare oltre… e in alto: oltre il tangibile, ed il concreto.

Il ragazzo d’estate non si può produrre. Non si può generare. Non si può rendere poesia. Perché, quelle emozioni che il ragazzino ha provato da infante, sono difatti eterne. Questo risvolto significa l’essere artisti in età adulta. E, siccome quel qualcosa dell’esser bimbi è andato perduto, ciò che ha permesso quella perdita, ci consentirà, attraverso la versificazione, di richiamare quelle emozioni provate dal bimbo ragazzo d’estate. Pertanto, non può essere fatto poesia; salvo che in un caso solo. Quando esso è: opera di genio. Un’opera la quale, ci tengo a ricordare Leopardi, metta a vivo la nullità di tutte le cose e, in quel frangente stesso, ne richiami l’essenza della vita.

Vi cito Leopardi sulle opere di genio:

Servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta.

Il vero artista sarebbe colui che non può servirsi della propria arte per non essere tale. Se artista, significasse essere sfortunati: il mio estro non deve essere la causa del mio essere arrabbiato con la vita. A mio avviso questo, il motivo per il quale, si pensava che Leopardi fosse pessimista. Invece, vorrei dire che, ogni uomo, a modo proprio, è artista.

Nel senso più ampio: essere artisti significa che, il nostro animo, è attanagliato da quella sofferenza originaria portante il creatore alla creazione di genio. Un vero genio non si serve dell’arte per non essere artista invero, per non soffrire. Semmai la sofferenza va a sussidio dell’artista: per aiutarlo a spronare il proprio genio. A creare l’opera di genio.

Risvolto: pavoneggiare l’arte, come ci insegna la moderna tecnica – per estrinsecare la pura estetica – significa, seguendo questo assioma spiegato, voler ostentare quel nichilismo, quella sofferenza. Che abbiamo chiamato sfortuna, o fortuna. La quale non può essere assolutamente arte. Perché è derivativa. Non opera di genio. Faccio un esempio. É come se si volesse sfruttare le risorse tecniche per vincere quello stato naturale di sfortuna, fatalismo, disperazione; mentre il vero genio creatore, dona senso alla vita. Attraverso l’arte. Conseguenza: l’opera di genio, è si, il risultato di questa vicenda, “che io artista senta le cose del mondo, la nullità di tutte le cose e con l’iride più angosciata”, ma, quell’arte, diviene il luogo accogliente la negazione di un estro prodotto esclusivamente per il mero gusto estetico. Concreto, superficiale, effimero dell’esistenza.

L’arte deve dare il senso alla vita.

E lo fa solo se essa è opera di genio.»

Come nasce questa sua passione per la poesia?

«Anche qui la risposta sembrerà complessa, ma vi posso garantire che in realtà è molto semplice. Avendo io trascorso un’infanzia molto colorata e a contatto con una natura fresca e rigenerante, ho avuto l’occasione di emozionarmi molto. Con i miei migliori amici. Trascorrendo momenti a dir poco indimenticabili. Questo panismo – vero e proprio -, condurrà il mio animo a richiamare quei momenti senza tempo; perciò, se mi concedeste l’occasione di citare Giovanni Gentile, lui ci direbbe che si può pensare il divenire delle cose solamente in un caso: quando, la coscienza, è ospitante il divenire.

Posso affermare, quasi con certezza, che la poesia nasca da questa vicenda: quando si diventa coscienti di ciò che si è perduto.

D’altronde, anche la filosofia nasce in tal modo… quando l’uomo cominciò a pensare le cose. E nello specifico: il divenire delle cose.

Allora, da quando ho cominciato a pensare che non ero più felice, come prima (come quando ero bambino), da quel momento, è nata la necessità – mediante i versi -, di richiamare l’infanzia: ed è nato il ragazzo d’estate.

Paradossale pensare che, se il mondo non fosse diveniente e le cose non mutassero, io non sarei poeta.

È difficile spiegare questo concetto.

Proprio questo è il discorso però. Che il mondo, in quanto è un cambiare, è un divenire. E le cose, possono essere trasformate, solo se a priori possono essere altro da ciò che esse sono; ed è lì che la poesia – concettualmente – fa il proprio compito. Come diceva Platone: il Poeta è colui che – ek toû mè óntos eis tò ón, fa transitare le cose dal non essere all’essere. Anche l’uomo, per i primi greci, era considerato (c’è un’espressione molto bella) – protos;la quale, significante: colui che è destinato a morire. A priori mortale; dunque. La lirica rammenta l’eternità: creare da zero, pertanto, è l’impossibile. Come il ragazzo d’estate. Che non è generato da nulla: ma dal ricordo di quelle emozioni eterne

Ma prima? (Nella scorsa domanda), non abbiamo risposto dicendo che l’arte non deve essere derivativa – E che, quest’ultima, deve essere opera di genio – In quanto deve dare senso alle nostre vite?

Risposta: esatto. L’arte deve dare senso alla vita, altrimenti è l’apparire del nichilismo.

Enuncio la struttura concettuale in modo rapido e chiaro. Dunque… Abbiamo detto che l’evidenza del discorso sancisce l’impossibilità di un’arte costituitasi esclusivamente per “abbattere” quello stato inflessibile di fortuna. Perché, se così fosse generata, sarebbe derivativa. In quanto codesta verrebbe utilizzata solo come scopo: ma questo è impossibile; perché abbiamo detto che la sofferenza dovrebbe andare a sussidio dell’artista. Per condurlo verso l’opera di genio.

Vi faccio un esempio: è come se Leopardi scrivesse le prodigiose operette solo per togliersi dalla propria situazione inflessibile di fortuna (in quel caso sfortuna). Ma questa è follia. Pensarla in tal modo. Perché è come se stessimo asserendo che Leopardi rinneghi il proprio genio. Questo è l’errore da capire – e da superare; anche.

È come se io scrivessi il ragazzo d’estate perché ora sono infelice; ed ora, attraverso l’opera stessa, vorrei togliermi da dosso la sfortuna di essere cireneo dalla vita. E, se il ragazzo d’estate fosse stato scritto per tal motivo, perderebbe quel carattere che altresì lo caratterizza: la sofferenza. Alla base della quale giace la sensibilità.

Repetita Iuvant: la sofferenza va a sussidio dell’artista. Non si diventa artisti per non essere tali. Questo è l’assioma. La follia permette una cosa del genere, perciò, ho ideato, nella mia filosofia smart, un’espressione simpatica – per indicare questo fenomeno, prendente il nome di ostentazione filosofica. Codesta espressione, infatti, vorrebbe indicare questa scelleratezza: quella di considerare l’arte un ninnolo. Da sfoggiare. Ostentare. Pavoneggiare.

L’ostentazione filosofica sarebbe l’arte prodotta stando isolati dalla sensibilità – o, cosa ancora peggiore: prodotta per non soffrire.

A sussidio della mia tesi, citerei il mitico Caparezza, il quale, nel brano Mica Van Gogh, dice: “tu sei pazzo… mica Van Gogh!”.

Chiusa.

Se io scrivessi un libro, oppure dipingessi… o facessi le sculture… per poi mimare gli opposti, perché avrei questa intenzione? Ovvero quella di imitare l’estetica altrui? Per quale ragione farei di me stesso un artista?

Risposta: per levarmi di dosso la sofferenza. Perché, secondo la mia opinione, ciò che si palesa (dagli opposti), serva ad eliminare il malessere. Invece è un abbaglio. Perché loro, in verità, stanno facendo un’altra cosa: esternano le loro emozioni. Non ci mostrano come essere felice, e come provare le stesse emozioni che mostrano.

Concettualmente è impossibile. Perché solo un’opera di genio può rappresentare ed incarnare quelle emozioni. In quanto contengono, alla propria base, quella sofferenza, quella sensibilità.

Le emozioni eterne non possono essere fatte poesia. Lo abbiamo detto prima quando, abbiamo asserito, che, un artista, non si serve della propria arte per non essere tale. Perciò, nell’errore, sono attratto da ciò che non risiede dentro me; ma, da ciò che vibra fuori me. Invece, il genio, è spronato da qualcosa che porta dentro il proprio cuore: l’emozione non contraddittoria. L’emozione eterna. Risiedente dentro la propria anima. Questa emozione, in quanto eterna, è negazione del proprio opposto. Invero: di quella sofferenza. La quale non proviene da fonti esterne, o altrui. Sono queste le suggestioni che difatti possono condurre alla felicità; che il genio aveva smarrito… certo, ma che, nel proprio animo, aveva trasformato in poesia.»

Cosa significa essere un giovane scrittore nel XXI secolo?

«Bella domanda. Come già spiegato nel corso della prima, il compito di un artista, sarebbe quello di rivestire un ruolo solidale all’interno società, ergo quello di essere attivi. Il più possibile. E, se fosse per me, farei come il grandissimo Charles Dickens. Il quale, come mestiere, svolgeva proprio l’attività di occuparsi personalmente delle presentazioni delle opere.

Lo scrittore citato, oltre a scrivere e a pubblicare i romanzi, come mestiere, si preoccupava di organizzare i cenacoli – nel corso dei quali, egli leggeva i racconti.

Ma vi dirò di più: la cosa più bella, sempre per il sottoscritto, è lo stare in compagnia.

Il letterato. Lo scrittore. Non considero queste figure un mestiere – un’attività remunerativa – se, per remunerazione, si intende un introito in danaro.

Il quale arricchente una sola componente: quella concreta e superficiale della vita.

Se fosse per me, condividerei il mio sapere e la mia arte chiedendo una sola remunerazione: quella di stare insieme alle persone che mi vogliono bene. I miei amici. La mia famiglia. Le persone che amo. Quindi, essere uno scrittore oggi giorno, per me, significa soprattutto questo: condividere i propri ideali, aiutare il prossimo, essere di speranza per coloro che soffrono.

Cercare di non mettersi in mostra, in modo pacchiano, in modo ridicolo, cercando di evitare fanatismi affini a sé stessi perché, questi, non ci portano a nulla. Salvo che ad avere maggiore competitività. In un mondo dove c’è ne in abbondanza; dove, codesta, è sinonimo di arroganza. Se fossi davvero un artista?! Questo non posso dirlo con certezza: perché, chi si loda – si imbroda. Devono essere gli altri a dirmelo. Però è certo: mi preoccuperei di capire se le mie poesie, i miei testi… facciano emozionare; ma, soprattutto, se possano donare un sorriso ad una persona meno fortunata di me.»

Quali sono le principali difficoltà a cui si va incontro?

«La difficoltà principale nel fare lo scrittore oggi – secondo me – non risiede nell’essere pubblicati da una casa editrice.

Perché, ad esempio, oggi esiste il self publishing: strumento potente per pubblicare ma anche per risparmiare. La difficoltà vera, dal mio punto di vista, risiede nell’essere capiti come artisti e, all’interno della nostra società, essere accettati. Inoltre penso che un altro problema sia quello di essere affiancati con cuore da una persona competente. Diciamo pure non da una persona del settore – non per forza da un professore, oppure da un correttore di bozze.

L’espressione di cuore, altresì, lasciava intendere una persona che affianchi il novizio, donando a quest’ultimo consigli, leggendo l’opera e, nel caso più ampio: revisionarla.

Questo è uno dei principali problemi.»

Recentemente ha pubblicato un libro di narrativa dal titolo “Cosmologia d’Estate”: come mai questa scelta di darsi alla narrativa? Cosa rappresenta per lei questo scritto?

«Proprio così: nel 2019.

Ai tempi ero il tesoriere di una associazione culturale e, colpito dagli eventi fausti di quel periodo ricolmo – iniziato un anno prima -, decisi che fosse arrivato il momento di scrivere un racconto inglobante gli eventi; ma non solo: la mia poetica.

Perciò, la seconda parola del titolo di questo secondo libro di narrativa, condivide la medesima del primo in versi. Vorrei spendere due parole circa il contenuto di questo piccolo racconto, dentro ci sono figure reali, immaginate e un filamento di poetica… Un universo sognato, quello della mia infanzia, trasformatosi in una vera e propria isola che non c’è: Aestas. Questa parola, giuntaci dal latino, significa estate. E, all’interno del libro, ha proprio la stessa valenza dell’isola che non c’è – letteralmente parlando. Però, al posto di Peter Pan e i suoi amici, ci sono gli abitanti di questa terraferma immersa tra le stelle; costoro sono i figli del sole – gli abitanti di Aestas -, e si chiamano in tal modo: i Pulcher di Aestas.

Indovinate un po’?

Gli abitanti di questa isola sono eterni.

La loro immutabilità proviene dalle emozioni che la stella, invero, che il sole, ha concesso ai propri figli. Le loro emozioni, essendo non contraddittorie, sono sempre forbite. Questi esseri Pulcher sono belli: non perché sono belli esteticamente parlando, ma perché sono le emozioni provate ad esserlo (belle); è un universo dove non esiste poesia, perché, il cosmo stesso, che io vorrei rappresentare, è la poesia medesima. Tutto il racconto è una metafora per spiegare quanto esplicato nel corso dell’intervista: l’opera di genio.

In definitiva per me questo scritto incarna il primo tassello per volgarizzare la poetica del ragazzo d’estate. Il secondo romanzo parla dell’eversore, laddove, il terzo, parlerà della soluzione legata a questo tabernacolo raccontante le vicende legate all’infanzia.»

Quali sono, ad oggi, i suoi punti di riferimento nella letteratura?

«Due sono i punti cardine di riferimento: Giacomo Leopardi e Dante Alighieri. Le duplici poetiche, hanno ispirato nel profondo il mio animo. Scuotendolo.

Parliamo del primo… (in realtà ho già detto molto) … che lo amassi? L’ho lasciato intuire.

Che dirvi sul conte Leopardi. Lo stimo. Ho deciso di poter incarnare il suo spirito nobile, proseguendo il suo percorso. Ho compreso che abbiamo molte cose in comune: la sofferenza – una tra queste.

Devo confessarvi che soffro molto.

Non mi vergogno di questa mia caratteristica.

Leopardi, in una sua famosa lettera, diceva: io non ho bisogno di gloria né di fama. Io ho bisogno di essere amato.

Ricorderete questa bellissima espressione. Uno degli aspetti più pregnanti della sofferenza, è sicuramente il solipsismo.

I versi esprimono la forza del sentirsi soli. Perché, i versi, rappresenteranno la volontà: quella di far tornare le cose perdute. E, un cantore, canta la propria canzone, proprio perché quelle emozioni eterne si sono trasformate nel tempo. Erano immutabili; sino a quando non hanno lasciato il passo a quelle dell’età adulta.

Questo genera sofferenza nell’animo del cantore ergo, un tipo specifico di infelicità. La quale non è malinconia propriamente voluta.

Far cambiare le cose. Se siamo tristi vogliamo essere felici. La poesia stessa, è il risultato di questa vicenda; questo soffrire, questo percepire le cose candide, di poterle esperire in prima persona…

Come madre natura sente la propria terra, la poesia è legata alla sofferenza.

È proprio questo il nesso unificante poesia e malinconia.

Non può esserci felicità senza tristezza – non può esserci poesia senza ricordo; perché, quel souvenir, è pregno di emozioni positive – non contraddittorie.

Come si potrebbe pensare l’infelicità, se non si conoscesse la felicità autoctona?

La risposta è che la poesia sopraggiunge in un momento particolare della nostra esistenza. Quando, la malinconia, sfiora i vertici più acuti della nostra anima; ma vi dirò di più: la poesia si manifesta in un momento glorioso – quando siamo felici, quando siamo emozionati, e toccati nel profondo.

Ora vi domanderete: ma non hai appena detto che, per essere artisti, bisogna soffrire? Sì, è vero.

Non ho specificato, invero, a che tratto della nostra sinusoide emotiva sopraggiunga la poesia: quest’ultima, arriva quando abbiamo accettato il dolore e lo abbiamo superato. Abbiamo il ricordo del dolore, abbiamo quello di quell’emozione eterna: il requisito per essere artisti c’è.

Possiamo esprimere i colori della natura, come faceva il sopraccitato Van Gogh. Possiamo esprimere, attraverso i versi, quanto sia magnifica l’esistenza. Come faceva Leopardi. E… Possiamo esprimere… Quanto sia importante l’amore cosmico ed universale…

per ultimo, ma non per questo meno importante:

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Senza che aggiunga altro, perché questo ultimo verso del Paradiso di Dante s’esplica da solo.

Le emozioni non contraddittorie sanciscono che la vita sia meravigliosa: ma è la sofferenza a rendere l’arte maestrevole.»

Quanto è difficile secondo lei parlare di emozioni in un mondo che rincorre il materialismo, il consumismo e l’estetica?

«Beh… io – in quanto artista -, sento le cose profonde. Percependole. Come se potessi ascoltarle con l’anima. Parlo del materialismo.

Ma il discorso da fare, è un altro: quanto posso essere compreso in veste di creatore?

Come già esplicato, la creazione, nasce dall’emozione infinita, la quale trasfiguratasi in canto. Il demiurgo è artefice di ciò. Ogni uomo è artefice del proprio destino.

Il risultato è di certo questo: noi artisti, sappiamo perfettamente cosa significhi essere percettivi, sensibili, sofferenti…

I nostri versi fanno emozionare, ci ricordano quanto siamo stati felici, ci invogliano a voler esserlo ancora.

Come già specificato, nel corso di questa bellissima intervista, i versi esprimono il cambiamento: la voglia di respirare aria fresca, di vivere, lottare per amore, costruire qualcosa di solido; mentre, nel frattempo, la poesia salva le nostre gesta. Rendendoci davvero immortali.

Perciò – se saremo stati abbastanza sensibili – la nostra poesia sarà maestrevole; tanto che non sarà una semplice creazione. Bensì opera di genio.

L’estetica, come suggerito dalla domanda, è frivola. Non aiuta a rendere l’arte verace. Solo per questo non significa che non sia importante. Lo si sa: se si producesse solo con l’intento di accontentare l’occhio – chiamasi prodotto commerciale, chiamasi derivativo -, l’arte non potrebbe, fino in fondo, dare senso alla nostra esistenza. E giungiamo al problema del consumismo. Della serie: l’arte non va fatta solo per essere data in pasto. Come prodotto commerciale.

Per chiudere quest’intervista vi lascerei con una citazione di un film che ho amato molto. Ci rammenta che, il talento, senza applicazione, è nulla. Proprio come quel nulla trascendentale nel quale consiste la materia cosmica.

Lo stesso nulla del quale, il demiurgo, si serve per trasformare e trasformarsi.

Per creare la propria… di fortuna.

“Essere brillanti non basta, bisogna lavorare. L’intelligenza, non è un privilegio – è un dono: che va usato per il bene dell’umanità”.

Doctor Octavius, Spider Man 2

La Redazione di Questione Civile

Ringraziamo Federico Di Mascio per l’intervista. Per saperne di più, vi invitiamo a seguire il suo profilo Instagram, @poeticadelluniverso

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