I jeans nella letteratura italiana: cambiamenti ideologici

La trasformazione ideologica dei jeans dalla lotta alla moda

I jeans come documento esemplare.

Il movimento sessantotto ha perso: le sue idee, i suoi propositi, i sentimenti politici che declinava, sono stati progressivamente neutralizzati e fagocitati da quello che Lacan ha definito «discours du capitaliste»[1]. È possibile osservare da vicino tale processo di conversione ideologica nella trasformazione che i jeans hanno subito all’interno della letteratura italiana dal secondo Novecento. Figurando inizialmente come indumenti connotati da una politica sovversiva, raggiunsero poi le soglie del nuovo millennio come vestiario esclusivamente erotico e commerciale.

L’esordio narrativo dei jeans: povertà e ribellione

È stato Pasolini a introdurre i blue jeans all’interno della letteratura italiana degli anni ’50, in qualità di indumento povero, adatto ai proletari, alle famiglie non appartenenti a ceti sociali agiati. A indossarli sono gli abitanti delle borgate romane protagonisti dei suoi romanzi, come Ragazzi di vita e Una vita violenta. Tuttavia, già con Moravia i jeans assumono una connotazione simbolica diversa, legata all’immagine del ribelle giovanile. Nel racconto Un dritto, ad esempio, Remo viene descritto come un bulletto con indosso un maglione nero accollato, pantaloncini all’americana blu e scarpe lucidate e appuntite.

Un uniforme militante del Sessantotto

Sarà questo tratto legato ad una volontà indisciplinata e insubordinata a costituire la fortuna dei jeans col progredire dei decenni. Nel Sessantotto i jeans diventano a tutti gli effetti un’uniforme militante, la vera e propria divisa dei giovani contestatori, assumendo così anche un’incisiva carica politica prima del tutto assente. L’indumento veicola a livello simbolico due delle maggiori battaglie del movimento: il livellamento gerarchico e la liberazione dei corpi e della sessualità. Vassalli insiste sul sentimento collettivo reso possibile e manifesto dai jeans, affermando che tutti indossavano quell’indumento poiché tutti coltivavano le stesse ambizioni ideologiche:

Tutti, allora, vestivano allo stesso modo, con i jeans, e pensavano e dicevano le stesse cose, perché soltanto facendo così si sentivano di essere originali e liberi. Tutti sognavano di cambiare il mondo[2].

Ceserano traccia invece una filiazione diretta della contestazione dai movimenti a favore dell’emancipazione etnica negli USA, collegando intimamente il Sessantotto statunitense e quello italiano in un’unica voce di dissenso intercontinentale resa simbiotica proprio dall’utilizzo comune dei jeans:

Tutto è cominciato qui, in questi Voom-voom e Piper, nei capelli lunghi e negli abiti colorati […], come del resto è vero che è nato a Londra e a New York, a Berkeley eccetera prima il pacifismo e la non-violenza come forme elementari del dissenso globale e poi a poco a poco […] la coscienza politica che porta i neri di Harlem dalle miti richieste d’integrazione al Black Power e i giovani americani dall’obiezione di coscienza e dal misticismo hippie ai coltelli nei blu-jeans[3].

I jeans dalla carica politica alla carica erotica: il mutamento assiologico di Moravia

Ciononostante, Moravia offre una prospettiva diversa, più ambigua. Ne La vita interiore, la protagonista Desideria indossa i jeans per comodità e cieca omologazione, non curandosi minimamente del valore politico che essi declinano:

Indossavo un maglione marrone, largo e sformato e pantaloni di cotone azzurro molto logori e scoloriti. Li portavano ormai tutti, a me parevano comodi e basta. In tutti i casi, ero lontanissima dal pensare che i miei vestiti potevano essere l’equivalente sartoriale di un manifesto rivoluzionario[4].

In una scena chiave del romanzo avviene un confronto tra l’amministratore dei beni della madre, il fascista Tiberi, e la giovane Desideria. Tiberi identifica Desideria come una rivoluzionaria a partire dai suoi abiti, e di conseguenza il conflitto ideologico sembra prendere piede in maniera programmatica. A prevalere è tuttavia una semiosi erotica e non politica, e ad essere rappresentato non è più uno scontro ideologico bensì uno stupro indotto proprio dai jeans colpevoli di aver acceso il desiderio sessuale dell’uomo.

Col progredire della narrazione, Moravia esplicita e anticipa il fallimento del Sessantotto proiettando su di esso l’ombra del consumismo:

Indossava la solita divisa giovanile di quegli anni, il maglione e i blue-jeans, gli indumenti che avevo io stessa in quel momento, ma mi è bastato uno sguardo per vedere che erano dei blue-jeans e un maglione speciali, voglio dire, delle imitazioni quasi parodistiche e, comunque, lussuose, confezionate per un genere di clientela desiderosa non già di spendere poco ma di essere alla moda[5].

I valori originali del Sessantotto sembrano essere stati disinnescati: i jeans, da uniforme rivoluzionaria indossata perché antigerarchica ed economica, vengono banalizzati in abbigliamento costoso e alla moda in un procedimento che Moravia stesso non esita a definire parodico.

La definitiva commercializzazione dei jeans

Alla denuncia di Moravia faranno eco gli autori dei decenni successivi, chiamati a rappresentare i cocci ideologici della volontà contestatrice ormai tramutata in ragione consumistica attraverso l’appropriazione della carica erotica dell’indumento. Leggiamo allora delle paure di Pasolini davanti alla pubblicità dei Jesus Jeans, timoroso davanti ad un nuovo Potere privo di valori.

Arbasino illustra un erotismo fine a sé stesso espresso dai jeans indossati dai suoi protagonisti, accusando esplicitamente una monocultura della Moda che tende allo “zombismo” – trasfigurazione perversa del sentimento collettivo di cui parlava Vassalli. Riscontriamo poi la definitiva svalutazione dei jeans in quanto oggetto semiotico proprio, dotato di autonomia semantica, al quale ci si riferisce piuttosto tramite il suo brand, il suo marchio, tramite l’uso di lunghe sineddochi. Borgia, ad esempio, non scrive di jeans ma di Gucci, Benetton, Levi’s, Monclèr, Enrico Coveri, Valentino, Adidas, Timberland, etc.

In generale, i jeans vengono fagocitati insieme ai significati che proiettavano e trasformati in logica di consumo attraverso un valore commerciale che sovrascrive quello politico, ottenendo come diretta conseguenza la rivalorizzazione economica del prodotto ormai ben lontano dall’appartenenza al mondo proletario di Pasolini. Scrive Paolo Nori:

Quando ero piccolo c’è stato un momento che in casa nostra i soldi erano diventati un problema serio. Io mi ricordo una volta che mi si erano rotti i jeans, per via che ero ingrassato, dovevo comprarmi un paio di jeans nuovi, è saltata fuori la storia che non potevo comprare dei Levi’s. Non sei mica figlio di Barilla, mi diceva mamma[6].

Aldo Baratta per Questione Civile

Bibliografia

Ceserano Giorgio, I giorni del dissenso. La notte delle barricate: Diari del Sessantotto, Castelvecchi, Roma 2018.

Lacan Jacques, Lacan in Italia, La Salamandra, Milano, 1978.

Moravia Alberto, La vita interiore (1978), Bompiani, Milano 2019.

Nori Paolo, Bassotuba non c’è (1999), Feltrinelli, Milano 2009.

Sebastiani Alberto, Blue Jeans, in G.M. Anselmi-G. Ruozzi (a cura di), Oggetti della letteratura italiana, Carocci, Roma 2010, pp. 49-51.

Vassalli Sebastiano, Archeologia del presente, Einaudi, Torino 2001.


[1] Cfr. Jacques Lacan, Lacan in Italia, La Salamandra, Milano, 1978, pp. 47-48.

[2] Sebastiano Vassalli, Archeologia del presente, Einaudi, Torino 2001, p. 6.

[3] Giorgio Ceserano, I giorni del dissenso. La notte delle barricate: Diari del Sessantotto, Castelvecchi, Roma 2018, p. 85.

[4] Alberto Moravia, La vita interiore (1978), Bompiani, Milano 2019, p. 206.

[5] Ivi, p. 328.

[6] Paolo Nori, Bassotuba non c’è (1999), Feltrinelli, Milano 2009, p. 129.

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