Analogie e differenze tra la redazione di un’opera trascritta e una a stampa
Per molti secoli luoghi di trasmissione delle opere giunte sino a noi furono gli scriptoria, tra i quali particolarmente noti sono quelli medievali. Tali luoghi, situati prettamente all’interno di abbazie e monasteri, si configurarono come roccaforti della sopravvivenza e della trasmissione delle opere letterarie. Di fatti a questi luoghi non si deve solo il sopravvivere di opere gradite al clero, ma anche di quelle ritenute inadatte al pensiero cristiano. Queste ultime, infatti, scampavano alla distruzione grazie alla dimenticanza e all’oblio ai quali erano destinati da parte degli ecclesiastici. Le opere che invece potevano rappresentare una risorsa o risultare indicative dell’Ordine presso il quale lo scrittoio sorgeva venivano conservate nella biblioteca e ricopiate.
La copiatura è alla base della tradizione di un testo letterario e con quella le figure a essa preposte. Nell’immaginario collettivo, quando si parla di scrittoi, si delinea la vulgata immagine del monaco amanuense prono sul suo banchetto, armato di pennino. E l’immagine che si delinea combacia la maggior parte delle volte con la realtà. Di fatti, la figura dell’amanuense è centrale nel processo di trascrizione dell’opera. Processo che non era, però, uguale dappertutto. Infatti, le modalità di trascrizione potevano essere varie; era possibile che un monaco attendesse da solo alla copiatura di un intero codice; altresì poteva accadere che vi fosse una figura preposta alla dettatura e che altre trascrivessero; o ancora, frequentemente presso le botteghe librarie, un codice poteva essere smembrato in pecie che venivano distribuite tra i vari copisti.
Quest’ultimo modo anticipa il concetto di produzione “in serie” –virgolettato perché non si può parlare di serialità di libro, intesa come identità di esemplari-. Infatti, presso le botteghe librarie, si ricorda la fiorentina di Vespasiano da Bisticci, vi erano vari copisti preposti alla copiatura ciclica della medesima pecia. Indi avveniva l’assemblaggio, dunque, la realizzazione dell’oggetto libro.
Dal pennino alla tipografia, la prima stampa
Alla base di quella che Elizabeth Eisenstein definì una «rivoluzione inavvertita»[1] vi furono delle necessità pratiche. Come un tempo il codice aveva sostituito il rotolo, così sulla copiatura manuale, lentamente, si era imposta l’impressione meccanica. Con l’avvio delle istituzioni universitarie l’operato degli scrittoi era divenuto insufficiente, la copiatura si era spostata dunque dagli scrittoi alle botteghe. La circolazione più fitta delle stesse opere però abbassava la qualità del prodotto. Inoltre l’immissione sul mercato di più copie dello stesso testo fece sì che se ne moltiplicassero non solo gli esemplari circolanti, ma anche le lezioni.
L’atto di copiatura di fatti è unico e irripetibile, ogni volta che un copista si approcciava alla copia, inevitabilmente apportava al testo un’innovazione. Ciò poteva accadere consapevolmente, quando si trattasse di un copista che attendesse in modo attivo alla copiatura, o inconsapevolmente[2].
La frattura con la tradizione si colloca generalmente a metà del XV secolo con la figura di Johann Gutenberg, inventore della stampa a caratteri mobili. In Italia in particolare si ricordano le figure di Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, fautori della stampa in Italia. Nel 1464 impiantarono a Subiaco la prima tipografia italiana, per poi trasferirsi a Roma, dove avviarono una collaborazione con un vescovo, Giovanni Andrea Bussi.
In tipografia: atti e attori
La nuova modalità di trasmissione libraria sostituiva agli scriptoria e agli amanuensi nuovi luoghi, nuove figure professionali e nuovi strumenti. Anzitutto vi era lo stampatore, responsabile di tutto il processo di stampa, vi erano poi i compositori, il correttore e il torcoliere. Alla piuma o al pennino venivano sostituiti i caratteri mobili, punzoni: piccoli blocchi di piombo sui quali a rilievo vi erano lettere, numeri o simboli. Il compositore era colui che, avendo prelevato i caratteri dalle casse, formava la linea di stampa sul compositoio, per poi approntarla sul vantaggio e bloccarla. Tutte le linee di stampa, bloccate in una matrice, una volta completate e bloccate in una gabbia, avrebbero formato la forma di stampa. Dai compositori l’azione passava ai torcolieri, che, avendo inchiostrando ogni forma, imprimevano i fogli. Ogni foglio, inchiostrato dapprima solo sul recto, verrà sarebbe stato messo ad asciugare, dopodiché si sarebbe proceduto con l’inchiostrazione del verso.
Il problema di tale procedura era la necessità di scomporre di volta in volta la forma, per creare una nuova composizione. Ogni foglio stampato veniva ripiegato, in base al formato prescelto per il libro, costituendo un fascicolo. Inizialmente l’acquirente provvedeva in maniera autonoma alla legatura, ricevendo dalla tipografia i fascicoli sciolti.
Il compositore: responsabilità nel processo di stampa
Se l’attore principale del processo di trascrizione era il copista, una responsabilità maggiore in tipografia era detenuta dal compositore. Generalmente erano di formazione meno letterata rispetto agli amanuensi, in quanto attendenti a un processo per lo più meccanico. Ciononostante talvolta introducevano modifiche nei testi, seppure solitamente involontarie, sebbene la correzione delle bozze rappresentasse uno strumento di controllo. In realtà, però, sarebbe scorretto parlare di serialità di opere a stampa. Sebbene si contrapponga spesso l’unicità del codice alla serialità del libro stampato, non vi era necessariamente identità tra tutti gli esemplari di un’edizione a stampa.
Nonostante la velocità del processo di trascrizione manuale fosse stata fautrice di maggiori errori, l’atto ripetitivo del compositore non ne rendeva lui esente. Abbiamo visto come la forma di stampa fosse aleatoria, ciò vuol dire che il compositore componesse e scomponesse forme per tutto il giorno. Inoltre la composizione della forma implicava uno sguardo continuo al testo: ciò implicava che il compositore potesse incorrere negli stessi errori del copista. Basti pensare a uno degli errori più frequenti, ritenuto infatti poligenetico, il saut du même au même, il salto di una porzione di testo contenuta tra due stesse parole. Vi erano poi errori dovuti al processo di composizione della linea di stampa: una cattiva selezione dei caratteri. Magari si attingeva a uno scompartimento errato della cassa, o la cassa risultava inquinata (un punzone era finito in uno scomparto sbagliato).
Varianti di stampa
Le prime tipografie erano caratterizzate dalla scarsa disponibilità di caratteri mobili, per cui si cercava di tenerli “immobilizzati” il meno possibile. Ciò implicava che spesso la tiratura fosse avviata prima che le correzioni delle bozze fossero terminate. Quando ci si accorgeva dell’errore, bisognava riaprire la forma e correggere e ciò accadeva più frequentemente quando in tipografia si trovava l’autore. Cosa ne era dei fogli già stampati? Semplicemente si utilizzavano. Dalla tipografia uscivano dunque fogli di stampa contenenti varianti, perciò non si può parlare di sicura identità tra tutti gli esemplari, pur della medesima tiratura.
Soltanto dall’analisi delle varianti di stato, ovvero varianti di stampa, si potrà risalire alla forma del testo che lo stampatore voleva realizzare. Quello che i filologi dei testi a stampa indicheranno come esemplare ideale. Di questo, però, se ne parlerà in altro loco.
Rosita Castelluzzo per Questione Civile
Bibliografia e sitografia:
B. Bentivogli-P. Vecchi Galli, Filologia italiana, Milano-Torino, Pearson Italia, 2010.
P. Chiesa, Elementi di critica testuale, Bologna, Patron Editore 2002.
P. Stoppelli, Filologia della letteratura italiana, Roma, Carrocci editore, 2008.
S. Villari, Che cos’è la filologia dei testi a stampa, Roma, Carrocci editore, 2014.
[1] E. L. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bologna, Il Mulino, 1985.
[2] Per uno specifico approfondimento su errori e varianti si rimanda ai manuali di filologia. In particolare ci si sente di consigliare B. Bentivogli-P. Vecchi Galli, Filologia italiana, Milano-Torino, Pearson Italia, 2010; P. Chiesa, Elementi di critica testuale, Bologna, Patron Editore 2002; P. Stoppelli, Filologia della letteratura italiana, Roma, Carrocci Editore, 2008. Infine anche il saggio di M. Zaccarello, Psicopatologia della copia […], edito in “Medioevo e Rinascimento”, XXIV/n.s XXI, Spoleto, Fondazione Centro Italiano di studi sull’Alto Medioevo 2010, 278-309.